di Palmira Mancuso – “I mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, banchieri, i vertici della nazione; c’è un equivoco di fondo, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone una tangente sulla tua piccola attività commerciale. Il problema della mafia è molto più tragico, riguarda i vertici della Nazione, la sua gestione, e rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale e definitivo l’Italia. “
Queste parole Pippo Fava, che vogliamo ricordare oggi 15 settembre nel giorno del suo compleanno, le pronunciò in quella che sarebbe stata la sua ultima intervista. Era il dicembre del 1983, quando rispondeva ad Enzo Biagi.
Pochi giorni dopo, alle ore 21.30 del 5 gennaio 1984 Fava si trovava in via dello Stadio a Catania. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale, I Siciliani, e si stava dirigendo verso il teatro Verga. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu ucciso da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca. Inizialmente, l’omicidio fu etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Così i suoi funerali non ebbero la risonanza di una cerimonia pubblica con la presenza delle cariche cittadine.
Ci vollero anni per giungere al processo: solo nel 1998 sono stati condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.
Questa intervista è una pietra miliare del giornalismo: l’elegante semplicità di Enzo Biagi col piglio di chi vuol far comprendere a tutti il messaggio, la fermezza e la lucidità di Pippo Fava, che non teme di fare anche i nomi degli allora “incensurati” fratelli Greco, ma che soprattutto fa una disamina attualissima che potremmo ricondurre alla irrisolta questione del “concorso esterno in associazione mafiosa”, reato per il quale manca di fatto il passaggio legislativo tanto da rimanere nel limbo di un garantismo ad personam (soprattutto se la “persona” in questione è un personaggio politico).
Eppure è proprio in quella zona grigia che l’ambiguità permette alla mafia, quella denunciata da Pippo Fava, di rendersi invisibile, di inabissarsi. Per citare chi oggi è in prima linea come il magistrato Sebastiano Ardita, “i messaggi sono divenuti trasversali; sono affidati a uomini col colletto bianco e lambiscono i settori istituzionali compromessi. I toni degli uomini di onore sono tornati bassi. Mezze parole e sussurri, esattamente come un tempo”.
Ed esattamente come un tempo è necessario il giornalismo: che può e deve tradurre, osservare, mediare appunto. Fornire spazi di parola, far circolare idee, informare quanto più possibile, mettere in relazioni fatti e persone.
Perchè quando scegli di essere giornalista non lo fai sognando di diventare Bruno Vespa, piuttosto sperando di essere all’altezza dei sacrifici che colleghi come Giuseppe Fava hanno fatto, dando dignità e valori a questa professione.