In occasione del 2 novembre, “l’editoriale” lo affidiamo a Totò.
‘A livella (in italiano, La livella) è una poesia in italiano e napoletano scritta da Totò nel 1964.
La poesia è ambientata in un cimitero, dove un malcapitato rimane chiuso dopo aver fatto visita alla tomba dello zio defunto. Questi assiste incredulo al discorso tra due ombre: un marchese e un netturbino, casualmente sepolti l’uno accanto all’altro, rispettivamente in un sepolcro fastosamente ornato ed in una tomba abbellita solo da una misera croce di legno, «piccerella, abbandunata, senza manco un fiore». È il marchese (signore di Rovigo e di Belluno, come ricordato alla lapide) ad aprire la surreale discussione, lamentandosi con fare polemico e mordente che la salma del netturbino – del quale disprezza la miseria ed il tanfo – sia stata deposta accanto alla sua.
Il netturbino – tale Gennaro Esposito – all’inizio assume un atteggiamento accondiscendente, quasi di mortificazione dinanzi all’atteggiamento assurdamente oltraggiato dell’altra ombra. È solo dopo averlo lasciato chiacchierare per un po’ che il disgraziato scupatore dà libero sfogo alla sua ancestrale saggezza e ammonisce il borioso nobile del fatto che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali, grazie all’azione della morte-livella (la livella è uno strumento usato in edilizia per stabilire l’orizzontalità di un piano).Non esiste né l’eversione per i ceti poveri, né la redenzione per quelli ricchi: sono solo i vivi, come ricordato da Totò negli ultimi versi, che si attengono alle classi sociali, in realtà pura apparenza, finzione:
« Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte! » |