Paure e fuga dal “Doppiomondo”: “Qualcuno volò sul nido del cuculo” al Teatro Vittorio Emanuele

di Antonio Fede – La rappresentazione artistica di un’ istituzione totale costituisce sempre un’operazione complessa, nella quale la tentazione di raffigurare una realtà, da molti inattingibile, secondo codici frusti e colmi di patetismo è fortissima. L’opera teatrale di Dale Wasserman, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ̶   trasposizione drammatica dell’omonimo romanzo di Ken Kesey e fonte di ispirazione per il grande regista ceco Miloš Forman, che da essa trasse un film di indimenticabile levità  ̶  rifugge abilmente da tali facili strumenti rappresentativi per compiere un’ illustrazione originalissima del mondo manicomiale, la quale si regge su un miracoloso e ineffabile equilibrio tra la manifestazione dei procedimenti di soggezione e l’indicazione di insperate vie di fuga da essi.

La rielaborazione e la messa in scena del testo di Wasserman, realizzate rispettivamente da Maurizio De Giovanni e da Alessandro Gassmann, non solo non ne tradiscono lo spirito originario, ma gli conferiscono, attraverso una vivace cifra stilistica, nuove e apprezzabili tonalità espressive, mirabilmente capaci di gettare luce su alcuni aspetti sottilmente prevaricatori dei sistemi istituzionali,  difficilmente comprensibili nella loro odiosa pervasività.

L’adattamento di De Giovanni e Gassmann si impernia sulla drammatizzazione di un “scontro” tra due istanze opposte: la normalizzazione disciplinare da un lato, veicolata in massima parte dall’inflessibile direttrice dell’ospedale psichiatrico  ̶  interpretata da Elisabetta Valgoi  ̶ , e l’incosciente (e proprio per questo più liberatoria) volontà negatrice di ogni forma di imposto disciplinamento dall’ altro, incarnata dall’ incontenibile e irriverente Dario Danise  ̶  rappresentato da un Daniele Russo quasi irreprensibile, potente catalizzatore della tensione drammatica e padrone della scena dall’ inizio alla fine.

Al centro di questa lotta si trovano gli ospiti dell’istituto, le cui soggettività vengono continuamente definite dai dispositivi correzionari che in esso non si arrestano mai; l’insieme delle procedure terapeutiche, pratiche e discorsive del manicomio hanno il principale compito di convincere, sfruttando così la loro docile “disponibilità”, coloro che vi sono incappati che non esistono condizioni alternative a quelle nelle quali si trovano, che è letteralmente impossibile pensare che “si possa guarire dall’ essere una nullità” (come si esprime uno degli internati riferendosi a se stesso). Tutti gli elementi drammaturgici, dall’ allestimento scenico alla recitazione degli attori, dalle musiche  ̶  il cui tema principale sembra quasi voler dare voce all’ inestinguibile desiderio di liberazione dei pazienti  ̶  alle proiezioni multimediali  ̶  che, unendo e separando a un tempo, come una cerniera, gli spettatori dalla scena, illustrano simbolicamente l’universo immaginifico, popolato da paure ma anche da deflagranti passioni, che gli “anormali” sono costretti sempre a mortificare in loro  ̶  sono orientati alla definizione di questo contrasto irriducibile, il quale però (e proprio in ciò consistono l’originalità e il valore dell’opera di Wasserman, pienamente intesa e reinterpretata dagli autori di questa rielaborazione) si presenta in modo anomalo, quasi “asimmetrico”: non come un semplice affrontamento, o una strenua e nobile resistenza “reattiva” da parte dei soggetti più deboli  ̶  alla quale le tecniche disciplinari possono sempre “aggrapparsi” per rimodellare più efficacemente le proprie strategie di controllo e subordinazione  ̶ , ma come una frenetica e gioiosa ricerca di una via di fuga da quei processi di soggettivazione/assoggettamento che il “Doppiomondo” (così definibile per via del fatto che in esso si riproducono, in modo raddoppiato e quindi più atroce, i “normali” dispositivi di disciplinamento della vita sociale) del manicomio non potrà, nonostante ogni progetto riformatore, mai completamente disattivare.

 

 

 

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