di Palmira Mancuso – Come conciliare una fede fondata sull’amore e che comanda di non uccidere, di non rubare, con un’organizzazione criminale come la mafia? Come possiamo conciliare il sacrificio e l’esempio di Don Puglisi, con le assoluzioni dentro il confessionale? Come facciamo a non prendere posizione dinanzi a quello che la cronaca ci offre?
Argomento spinoso quello di poter impedire o meno la partecipazione alla festa patronale di uomini e donne legati ai clan. Ci hanno provato in Calabria, alla Madonna di Polsi: anni di prediche durante la manifestazione, col Vescovo Bregantini che ha dato un volto nuovo alla festa, cercando di sottrarla alla ‘ndrangheta. Da lui sempre parole chiare, inequivocabili. Quest’anno la festa, ufficialmente, non si farà. La strada per Polsi è interrotta e franata (non sono bastati due anni a sistemare la via sterrata che conduce alla piccola valle nascosta tra i monti di San Luca). Il dubbio è che sia una strategia per impedire che la presenza di persone sempre più “estranee” a certi meccanismi, che mal si conciliavano con la tradizione di cui fa memoria Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, potessero definitivamente “imbastardire” la festa che per molti anni è stata occasione per creare patti e accordi tra i capi delle ‘ndrine.
Ovviamente nessuno può limitare la manifestazione della propria fede a chicchessia, e dal ladrone sulla croce all’attentatore del papa, la Chiesa offre riscatto e riconciliazione: la misericordia di cui quest’anno si celebra il Giubileo. Ma nella nostra riflessione, il perdono teologico non è messo in discussione. Il ricatto sociale si.
E nell’incessante dialettica tra i condizionamenti ed il libero arbitrio, possono e devono incidere le scelte di chi ha responsabilità collettive.
Quindi, dinanzi a certe manifestazioni pubbliche, bisogna pubblicamente prendere le distanze e sottolineare che se ai piedi della Madonna c’è posto per tutti, non tutti i messinesi sono disposti a condividere la devozione con altro che non sia la fede.
La devozione che invece abbiamo notato, è quella manifestata ad un boss in carcere e al figlioccio ucciso da un appartenente ad un altro clan, e “ribattezzato” attraverso la pubblicazione del necrologio sul giornale della città. Immaginando chi ignaro ha osservato lo sfoggio di magliette e foto di un giovane, col volto incastonato dentro un cuore e la scritta Primo Memorial Giuseppe Tortorella, vorremmo spiegare che si tratta di un messaggio da recapitare, di un rafforzamento di certa identità mafiosa che molta città rifiuta. I giovani di Camaro sono più di quelli che sfilano in motorino davanti al carcere per fare omaggio al boss in lutto. I giovani di Camaro sono messinesi con i quali dobbiamo essere chiari: la mafia, l’omertà, la violenza, sono UNA MONTAGNA DI MERDA. La mafia, l’omertà, la violenza PROVOCANO LA MORTE. Anche se sei il figlioccio del boss.
Se molta città vuole riconciliarsi con le radici più autentiche, lo deve fare con coraggio. Quello richiesto da Don Terenzio di Addio Pizzo, quello che l’assessore Ursino non ha avuto blaterando di presenze “non invitate” alla conferenza stampa di presentazione della Vara.
Qui non si tratta di essere moralizzatori. Che tutti portino nel cuore ciò che desiderano, ma che sia chiaro cosa è bene e cosa non lo è.
A chi osserva il dovere, quanto meno morale, di dire che i messinesi preferiscono ricordare altri giovani concittadini che questa edizione l’hanno vista dal cielo: il piccolo Rosario Costa, esempio di un giovane dedito allo sport e vittima della strada, Rebecca Lazzarini uccisa a 14 anni da un guidatore ubriaco, Lorena Mangano travolta su quella stessa via Garibaldi dove il 15 agosto l’asfalto bagnato permette alla Vara di scivolare.
Il calpestio dei piedi bagnati non ci distragga. La commozione non ci annebbi.