C’era un partito che si proponeva di raccogliere le anime della vecchia sinistra italiana, comprese quelle più moderate. Comunisti, cattolici, cuori democristiani e riformisti, tutti insieme in un unico calderone: da Giuliano Amato a Rosy Bindi, da Enrico Letta a Walter Veltroni, da Anna Finocchiaro a Sergio Cofferati, da Massimo D’Alema a Pierluigi Bersani passando per Piero Fassino.
E proprio quest’ultimo, vittima della sua seconda profezia, incarna con la sua disfatta amministrativa il più importante – forse – dei dati politici di queste amministrative: un voto contro un modus operandi che non piace più. Se Torino è una città che detiene primati imbarazzanti, come quello sulla disoccupazione giovanile, è anche un comune nel quale la governance è riuscita a mantenere dignitosissimi standard amministrativi. Dare a Fassino del pessimo sindaco sarebbe un falso. Eppure è caduto anche lui sotto i colpi dei competitor. E competitor è Chiara Appendino, candidata del Movimento 5Stelle che, nel suo primo intervento pubblico, non manca di ringraziare il suo predecessore e i suoi per “il servizio” reso alla città di Torino.
Una lettura del voto che potremmo definire sui generis circa il ballottaggio viene offerta dal senatore Stefano Esposito (Pd) per il quale dopo 23 anni di governo di centrosinistra nella città piemontese “C’è un’esigenza di cambiamento. In democrazia c’è l’alternanza”. Pensare che il popolo cambi quel che va bene per provare l’ebbrezza dell’ignoto suona quasi offensivo, ma si è fatto e detto di peggio ai danni dell’elettorato.
Il movimento pentastellato, inequivocabilmente, tanto lì quanto a Roma vince con distacco. A questa Caporetto democrat ciascuno offre la sua interpretazione: da Milano, il Pd vincente – per il risultato di Sala – attribuisce la responsabilità della vittoria dei nemici grillini al centrodestra, che avrebbe dirottato su Appendino e Raggi i voti di cui dispone nel proprio bacino. Di ammettere che il Cinque Stelle continua a crescere, e lo dimostra anche oggi, è cosa che non riesce proprio al partito di governo. E questo atteggiamento di superiorità – che suona come superbia – è certo uno degli elementi più invisi agli elettori che, come fatto in questa occasione, sanno come farlo constare. La situazione capitolina è eclatante: un distacco importantissimo tra i due candidati al ballottaggio, con l’esponente democratico più che doppiato. Ma che Virginia Raggi rischiasse di avere la meglio su Roberto Giachetti (e su tutti gli altri aspiranti al Campidoglio) era possibilità già molto concreta sin dall’inizio. Tanto che la parlamentare pentastellata Paola Taverna parlò già mesi orsono di un “complotto per farci vincere a Roma”. Una città che esce non senza strascichi da una macroscopica inchiesta che resta ancora un vaso di Pandora scoperto e pieno di sorprese al suo interno. Una realtà depauperata del proprio sindaco, regolarmente eletto, la cui titolarità è stata cancellata con un colpo di spugna da un vertice partitico, senza lasciare troppo spazio a spiegazioni di particolare valore. La città eterna più che una conquista è una patata bollente, dalla quale potrebbe anche avere inizio la spirale discendente di un movimento che ad oggi si è conquistato la pole position vestendo il ruolo di opposizione. Governare è un’altra storia e Roma può diventare l’anticamera di una sconfitta in termini di credibilità politica se non la si sa gestire. Così come, al contrario, potrebbe rivelarsi la scommessa vincente di un partito giovane ma con i piedi ben saldi sul territorio di cui ha dimostrato di conoscere istanze e criticità.
A Milano la situazione è diversa. Il partito di Governo dice e dirà ancora, almeno fino alla fine dell’estate, che la vera partita si è vinta lì perché Beppe Sala è il cavallo su cui ha puntato il centro sinistra e che ha raccolto l’eredità di Pisapia. Un testa a testa tra lui e Parisi, reo d’aver commesso l’autogol di non rendere noti i nomi dei suoi assessori, lasciando che il timore di un rientro della vecchia guardia – con Gelmini e Lupi in testa, come sostiene Peter Gomez- avesse la meglio sui votanti che gli hanno preferito il commissario dell’Expo. Una vittoria che il premier Renzi si lega al dito come fosse la breccia di Porta Pia.
In realtà il capoluogo lombardo merita una parentesi diversa dalle altre grandi città. Sui due nomi meneghini tanto si è detto con ironia, evidenziando quanto entrambi fossero l’uno omologo all’altro. “Non sono uguali affatto. Uno dei due ha gli occhiali”, aveva affermato in una sua copertina Crozza. È il modello Milano che fa la differenza e lo dice chiaramente il neo sindaco durante il suo discorso a caldo dopo l’arrivo dei risultati semi definitivi. Mr. Expo esordisce salutando il suo concorrente, dal quale afferma di aver già ricevuto una telefonata di auguri e in bocca al lupo. Si chiama fair play ed è stato il leitmotiv di tutta la campagna della città della Madunina. Ma, ospite di Porta a Porta per commentare lo scrutinio lombardo (soprattutto essendone un diretto interessato), spunta Maurizio Lupi che commenta in modo inaspettato il dato politico che emerge dai ballottaggi: “Un uomo solo al governo non unisce, divide. Si perdono i presupposti con cui questa legislatura era nata”. Una défaillance da stress post traumatico per aver visto perdere il suo candidato Parisi? Uno scivolone figlio del momento caldo o un’anticipazione dell’alleato che inizia a pensare ad affrancarsi in vista di un futuro che, per dirla alla Vespa, “potrebbe vedervi come alternativa”? Interpretazione libera che non viene smentita né confermata dall’ex ministro dei trasporti. Ma la vera battaglia da outsider si gioca tutta sul territorio campano. A Napoli viene riconfermato l’uscente Luigi De Magistris, una battaglia combattuta con le unghie e con i denti in un territorio difficilissimo e in cui l’astensionismo è stato il vero protagonista del ballottaggio, al quale hanno partecipato solo 1/3 degli aventi diritto al voto. “È una vittoria esclusiva dei nostri militanti e di chi ci ha creduto. Tra il primo e il secondo turno altri non hanno votato per noi e non abbiamo avuto inutili travasi del Movimento5Stelle o del Pd, abbiamo vinto contro tutti e contro la gran parte dell’informazione”, ha dichiarato l’ex magistrato da oggi al suo secondo mandato alle pendici del Vesuvio. “Non è voto di protesta ma per la rivoluzione governante”, ha affermato il primo cittadino.
Mentre al Nazzareno i vertici del partito sono blindati “ai piani alti”, giunge una nota alla stampa nella quale Matteo Renzi in persona dice la sua e mantiene la (ben studiata) linea dura di chi non si nasconde dietro un dito – una strategia comunicativa diversa dal passato di una politica che ha abituato a dichiarazioni trionfali anche dai perdenti che, tanto, stando alle loro analisi, un motivo per sentirsi vincitori pare lo trovassero comunque sempre -: “I ballottaggi mostrano una sconfitta netta e senza attenuanti a Roma e Torino”… Ma ecco che arriva la parte dell’abbiamo vinto lo stesso: “…e una vittoria chiara e forte a Milano e Bologna. Il quadro nazionale è più articolato”, prosegue il comunicato. “Vinciamo da Varese a Caserta ma perdiamo da Novara a Trieste”, un colpo qui è uno lì. Si parla di “voto frastagliato” sul territorio nazionale e, per questo, la direzione si riunirà per “riflettere”. Quando? Presto, prestissimo; venerdì prossimo, neanche a dirlo il giorno dopo il referendum per la Brexit.
C’era un partito che si proponeva di raccogliere le anime della vecchia sinistra italiana, comprese quelle più moderate…un partito che, nella sua evoluzione, forse, per un momento si era pensato potesse incarnare un inizio di Dc 3.0. Quel partito il 20 giugno ha subito un colpo molto forte perché, dopo tanto tempo, si è confrontato con il territorio e non con i voti di fiducia delle Camere. Certo è che da adesso qualcosa cambierà: no, non il modus operandi di Palazzo Chigi, solo la tipologia di comunicazione in vista del 2 ottobre, perché Renzi lo sa che il voto odierno è stato espresso in buona parte contro la tracotanza del suo governare l’Italia come se amministrasse il suo feudo. E quindi un cambio di rotta è obbligato nell’ottica di far trionfare il sì al referendum e non dover quindi togliere le tende dal Palazzo, come promesso. Basta telefonate a casa dei cittadini da parte di Maria Elena per promuovere questo candidato o quel progetto; stop agli estremi personalismi di un capo del Governo sempre troppo convinto – erroneamente – di se stesso e del suo appeal. Il principino della rottamazione è stato rottamato a sua volta. La realtà è che il Pd, partito dalle mille anime, ad ora le vede le une contro le altre. Ma non è Renzi ad avere il nemico in casa. Piuttosto è lui il vero nemico dentro casa sua! Il ragazzo ha un gran potenziale…distruttivo: nelle sue mani, quel partito che voleva diventare una nuova grande casa per gli italiani è destinato ad accartocciarsi su se stesso e lasciare di sé solo briciole e pessimi ricordi ai posteri.
@EleonoraUrzìMondo