di Saro Visicaro – Da casello a casello. Messina è una città che esiste fisicamente tra due caselli autostradali. Oppure tra due approdi. Un’isola nell’isola insomma. Qui, secondo molti, la mafia esisterebbe solo oltre Tremestieri o Villafranca. Magari oltre lo Stretto.
Dove invece sembrerebbe non esserci traccia di Cosa Nostra è nella zona franca di Messina. Città demafionalizzata e perciò “babba”. Ancora di più dopo il 21 marzo. A Catania Giuseppe Fava ci fece scoprire i “cavalieri del lavoro” e i “giudici collusi e compiacenti” già prima del 1984. Dopo che venne ucciso tutti capirono chi comandava sotto l’Etna. Il sistema di potere che dettava legge.
Quindici anni dopo la sua morte un magistrato coraggioso, Giambattista Scidà, provò a risvegliare le coscienze denunziando al Consiglio Superiore della magistratura un imbroglio legato alla costruzione del centro fieristico. Il supremo organo aprì una procedura per trasferire il giudice Scidà. Poi ritirata per un residuo di vergogna istituzionale. Nacque così il “Caso Catania”. La Procura di Messina si occupò degli eventuali reati dei magistrati catanesi che vennero archiviati.
La normalità, quella cosa cioè che serve a silenziare gli affari sporchi, restituì verginità ai politici e agli imprenditori coinvolti. Gli stessi che ancora oggi dettano legge in Sicilia. In galera finì soltanto Nitto Santapaola con molti dei suoi anche se ancora continuano a condizionare gli affari. Insomma la mafia, è stato accertato, da quelle parti esiste e persiste. A Messina no.
A Messina è come se la politica e l’imprenditoria fossero immuni dal sistema mafioso. Le inchieste si fermano a Barcellona. I criminali nello Stretto non transitano. Persino la feroce uccisione di uno come Bottari, docente universitario e genero del potentissimo rettore D’Alcontres, perde di interesse. Di “curiosità” investigativa. Siamo al cosiddetto modesto “verminaio” ma non nel terreno di Cosa Nostra.
Anche la fine del boss di Bagheria Michelangelo Alfano, legato ai politici e agli imprenditori peloritani, venne incartata come suicidio. Le guerre sanguinose degli anni ’80 e ’90, dopo le stragi di mafia, si sono invece concluse con i “pentimenti” universali dei boss locali.
Marcello La Rosa, nei suoi libri, ha magistralmente sottolineato questo paradosso messinese. Tutti pentiti, tutti impuniti. Quindi saremmo veramente in una zona franca rispetto al sistema di Cosa Nostra? Provenzano, Riina, Santapaola, la ‘ndrangheta, Messina Denaro, non hanno mai coinvolto politici ed imprenditori messinesi? Soltanto roba di poco conto e marginale? I profitti di usura, estorsioni, droga, vendita di armi, scommesse clandestine, prostituzione etc. non vanno forse a finire presso gli sportelli bancari della città? Favori, scambi di voti, assetti societari non riguardano il mondo della politica locale, dell’imprenditoria, della criminalità mafiosa? Gli appalti nella sanità, nelle costruzioni, nei servizi sono immuni da infiltrazioni? I grandi enti come Università, Comune, Asp, Autorità Portuale, etc. specchiano per trasparenza e legalità?
Se così fosse allora sarebbe stato inutile ospitare il mega evento antimafia del prossimo 21 marzo a Messina. Oppure, forse, ci si vuole illudere e fare credere che in questa città saremmo liberi dalle mafie. Magari sarà la convinzione che “l’oligarchia dell’antimafia” vuole che si perpetui. Magari i gesti simbolici servono a sostenere novelli donchisciotte.
Lottare contro Cosa Nostra, contro il sistema che è sempre più un intreccio finanziario e politico, significa molto di più del pur rispettabile evento mediatico. Perché la mafia c’è ed è accanto a noi. (in copertina una illustrazione di Rosalia Radosti per messinaora – 2013)