di Giuseppe Loteta – Quel 10 giugno del 1940! Mussolini annunciava al “popolo italiano” che la guerra era stata dichiarata ed io e mio cugino Attilio giocavamo in una stanza attigua al salotto, dove un monumentale apparecchio radio diffondeva la voce roboante del duce. Eravamo in casa di zio Gino e zia Caterina, padre e madre di Attilio, a Messina. Quasi nove anni io, poco meno di un anno mio cugino, eravamo entrambi Marescialli d’Italia, Badoglio io, Graziani Attilio e, attrezzati con cappelli di foggia militare e pistole-giocattolo, ci contendevamo con liti furiose la guida di un esercito immaginario.
Attratti dalla nota voce amplificata dalla radio, entrammo in salotto. “Combattenti di terra, di mare e dell’aria, camicie nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero, del regno d’Albania, ascoltate…”. Ascoltammo, in silenzio. E guardammo in su. Mio padre aveva la faccia tesa e un’espressione dura, preoccupata. Zio Gino non nascondeva l’inquietudine e il malumore: accompagnava le frasi d’effetto del duce con gesti e mimica facciale facili da interpretare.
Perchè? Non capivamo. Per anni, nelle aule della scuola elementare, sui libri, nelle parate dei balilla, ovunque, ci avevano preparati alla guerra: “Dell’Italia nei confini son rifatti gli italiani, li ha rifatti Mussolini per la guerra di domani…”, “Libro e moschetto, fascista perfetto”, “Snuda la spada quando tu lo vuoi, gagliardetti al vento tutti verremo a te”. Mussolini, adesso, dava concretezza a quell’antica speranza: “Popolo italiano, corri alle armi e mostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore”. E allora? Che cosa avevano da lamentarsi i nostri padri? Riprendemmo festosi i giochi bellici, lanciando contumelie alla “Perfida Albione” e alla Francia, “cugina bastarda”.
Mio padre morì in guerra e zio Gino, che ricordava gli avvenimenti del passato con memoria elefantiaca, é morto pochi mesi dopo aver compiuto cento anni.. Io dovetti aspettare quasi tre anni per capire il senso della loro amarezza di quel 10 giugno. All’inizio del 1943 si profilava la sconfitta e su Messina erano cominciati i micidiali bombardamenti a tappeto dei quadrimotori americani. Il primo di questi, a mezzogiorno del 30 gennaio, fece enormi danni in città e ridusse a un cumulo di macerie molte delle case a un passo dalla nostra. Morti e feriti a non finire.
Poichè prima di quel giorno le incursioni mattutine erano effettuate soltanto da innocui aerei inglesi che se la cavavano con il lancio mirato di qualche bomba e di qualche spezzone incendiario, l’attacco americano fu inaspettato e devastante. Casa nostra, pur circondata dalle bombe, rimase fortunatamente in piedi per via del cemento armato delle costruzioni realmente antisismiche di allora. Ma mia madre decise lo stesso di portarmi via da quell’inferno.
Attilio e i suoi genitori erano già sfollati a Galati, un paesino di mare non lontano dalla città. Era lì che per il momento dovevamo andare. Ma come? Treni, tram, automobili, neanche a parlarne. Quel giorno, tra le macerie della città, nulla funzionava. A piedi? A piedi. Sono solo dieci chilometri, in fondo. E partimmo, mia madre, io e zio Gino che per via del suo lavoro quel giorno era ancora a Messina.
Quando arrivammo a Tremestieri, a poco più di metà del percorso, ci sorprese un altro bombardamento. Boati enormi venivano dalla città, dove, ma lo apprendemmo dopo, un’incursione delle “fortezze volanti” americane, devastatrice quanto quella della mattina, aveva preso di mira il porto e la stazione ferroviaria. Ci rifugiammo in una casa di pescatori a pianterreno, gremita di altra gente che si riparava alla meglio. E lì, tra un’esplosione e l’altra, sentii per la prima volta parlar male apertamente del duce.
I pescatori non avevano peli sulla lingua. “Quel cornuto!”. “A soi è a cuppa (E‘ sua la colpa)”. “Non l’avia a fari a guerra”. “Fici moriri i figghi ‘i matri”. “Ava a moriri puru iddu (Anche lui deve morire)”. Come è possibile? Era di Mussolini che parlavano? Del Duce degli italiani? Del condottiero, le cui gesta avevano riempito la nostra vita, le nostre parate pre-militari e i nostri componimenti scolastici fino a quel momento? Ma è proprio vero? E se queste persone dicessero la verità? Il dubbio cominciò a farsi strada dentro di me.
La consapevolezza arrivò dopo, con la distruzione pressocchè totale di Messina, l’arrivo degli eserciti alleati e la rinascita della democrazia. Ma fu in quel momento, in quella casa di pescatori, nel frastuono delle bombe americane e della contraerea italiana, che io rividi i volti dei nostri padri in quell’ormai lontano 10 giugno 1940. E seppi che avevano ragione.