“Am I a good man?”
E’ questa la domanda intorno alla quale ruota l’intera ottava stagione di Doctor Who – da poco conclusasi in UK e presto in arrivo su Rai4 – nonché il dilemma che si pone più e più volte il suo leggendario protagonista. Senza soffermarci sulla risposta che il season finale ci ha proposto, da spettatori potremmo invece avanzare un ulteriore quesito: e Moffat? Potremmo definirlo un good writer?
Anche in questo caso, rispondere non è semplice. Cosa significa essere un bravo sceneggiatore, autore o scrittore che dir si voglia? Cosa conta di più: saper scrivere dialoghi taglienti ed ironici o creare una storia coerente, ben strutturata, senza sbavature? Dare vita ad idee folli e geniali con il rischio di strafare o volare più basso garantendo, però, una solidità maggiore? Prendendo ancora una volta in prestito le parole del Dottore (che poi sono quelle di Moffat) forse il nostro showrunner, in fondo, è soltanto un idiota con una penna e un calamaio, capace di grandi cose ma anche di scivoloni imperdonabili e che, esattamente come la propria creatura, è suo malgrado tanto “buono” quanto “cattivo”.
Niente lo dimostra meglio di quest’ultima stagione, che mette in mostra tutto il talento e contemporaneamente l’inadeguatezza del Moff rispetto a certe dinamiche.
Il progetto dietro questi 12 episodi era senza dubbio di rara complessità, specie per quanto riguarda lo sviluppo di una problematica di tipo identitaria applicata al Dottore e alla sua companion nonché la rischiosa incursione nell’aldilà, e pertanto si potrebbe definire come il più ambizioso dell’era Moffat e probabilmente di tutto New Who. La scelta del tema, dunque, è già di per sé indicativa di grande sensibilità ed ingegno, cosa che può soltanto fare onore al nostro controverso showrunner. Tuttavia, le buone intenzioni da sole non bastano a tenere in piedi un prodotto diluito nel tempo e stratificato come le varie stagioni di una serie tv, e se si sceglie di alzare sempre più l’asticella mettendo tanta carne al fuoco bisogna anche avere i mezzi e la tecnica giusta per impedire che la fiamma si spenga.
Ma continuiamo con gli esempi e scendiamo un altro po’ nel particolare.
E’ il doppio finale a mostrarci, più di tutti gli altri episodi, punti di forza e debolezze dello stile moffattiano. Dark Water, forse la puntata più entusiasmante e convicente della stagione, è la prova di quanto il Moff sia geniale nell’ideare atmosfere inedite, abile nel delineare tematiche innovative ed efficace nel presentarle al pubblico, ma non altrettanto a fuoco quando si tratta di concretizzare il tutto e mettersi in gioco sul serio. Death in Heaven, la seconda parte, è infatti molto più debole: si passa dai buchi di sceneggiatura (uno su tutti: Missy che tenta di uccidere il Dottore quando poi l’intero piano si basava sul “consegnargli” un esercito di Cybermen) alla caratterizzazione approssimativa dei personaggi e dei rapporti tra di essi (sequenze con Clara e Danny protagonisti: banali e per nulla coinvolgenti), senza dare alcuna vera risposta all’enigma della stagione.
“Il Master sceglie Clara perché è una maniaca del controllo, e dunque capace di tenere a bada quel pazzo irrazionale” – ecco la spiegazione che ci viene fornita. Una soluzione pessima, fin troppo anticlimatica e per giunta poco convincente, dal momento che tale caratteristica non risulta per nulla evidente né tanto meno accentuata nel corso della puntata. Inoltre, in passato, Missy sembrava interessata ad un altro aspetto – opposto – della personalità di Clara, stavolta sì, esplorato per bene: ovvero, la sua somiglianza con il Dottore.
Non a caso la sequenza più toccante della puntata, quella finale, è costruita proprio su questo elemento: Twelve e Clara si mentono a vicenda per non ferire l’altro, dimostrando così di essere profondamente ed intimamente simili. Non è vero che Moffat non ci mette il cuore! Anzi, alle volte esagera pure, sconfinando nello stucchevole e il prevedibile. Se riesce a controllarsi, però, è perfettamente in grado di sfornare dialoghi di grande intensità, come in questo caso.
Ciò che preoccupa un po’ tutti i fan di Doctor Who è quel “se”, non soltanto per quanto riguarda l’aspetto più propriamente emozionale ma anche e soprattutto sul piano della trama, che spesso sembra sfuggirgli dalle mani. Conosciamo benissimo il valore di Steven Moffat, che ha firmato alcuni degli episodi più riusciti ed iconici della serie, ma conosciamo anche i suoi limiti. Il confine tra geniale e improponibile è fin troppo labile se non si ha il controllo totale di ciò che si sta scrivendo, e l’impressione è che quest’anno (ma anche in passato) ci fosse sempre qualcosa di poco chiaro e dunque fuori-controllo.
Nel complesso, comunque, questa ottava stagione non è assolutamente da buttare. Esclusa l’ottima quinta, è forse la più riuscita dell’era Moffat, perché si pone in perfetto equilibrio tra i due poli della pervasività della trama orizzontale e della sua totale assenza. I riferimenti al tema sotterraneo di quest’anno sono disseminati lungo il percorso senza risultare invadenti e ogni episodio ne beneficia pur non restandovi intrappolato. Il pragmatismo brutale e l’atteggiamento compiaciuto di Twelve hanno innescato una serie di dinamiche fresche ed inedite sulle quali si reggono episodi affascinanti come Kill the Moon e Mummy on the Orient Express, ed anche sul piano dei riempitivi è stato fatto un ottimo lavoro, in particolare con The Caretaker e Time Heist.
Di cosa ci lamentiamo, allora? Beh, sempre delle stesse cose: poca attenzione ai dettagli, occasioni sprecate e virate preoccupanti verso il sentimentalismo. C’è sempre un momento in cui Moffat perde il controllo e finisce fuori strada, forse perché guidare a lungo porta ad una perdita di lucidità.
E dire che basterebbe rinunciare agli equilibrismi per ritrovare, come in altre occasioni, il giusto equilibrio.