Quando incontriamo Raffaele Fornaro a Palazzo Zanca c’è molto silenzio. Sono da poco passate le quattordici e il clamore delle ore precedenti sembra lontano. Eppure quest’uomo, che con clama ci fa sedere sul divano dove ha deciso di trascorrere i giorni che lo separeranno dalla risposta che attende, poche ore prima ha tentato un gesto estremo, minacciando di darsi a fuoco. Si. Perché Raffaele Fornaro nei suoi 43 anni di vita ha superato l’adolescenza turbolenta che gli esperti chiamerebbero “deviata”, è uscito fuori dalla tossicodipendenza, è sopravvissuto a 19 lunghi anni di carcere, ma non vive dinanzi allo sguardo del piccolo figlio di un anno a cui non può comprare il latte.
“Ho cercato di lavorare – ci racconta gesticolando con una mano, visto che l’altra è ben incatenata al bracciolo del divano comunale – ditte di pulizie, cameriere, cantieri: sempre, solo, lavoro nero. Il problema è che adesso non esiste neanche quello, perché i datori di lavoro, con il fisco che ha intensificato i controlli, hanno paura”.
Gli chiediamo cosa si aspetta: sa che non è sufficiente un’azione “dimostrativa”. Forse doveva appiccarsi davvero il fuoco, intanto ha deciso di intraprendere da domani uno sciopero della fame e della sete.
Il suo sguardo è quello di chi non ha più niente da perdere, ma carico della dignità di chi ha sofferto molto e ha pagato per i propri errori. “ Ho pagato per i reati che ho commesso, ma perché devo continuare a pagare ancora? Io non voglio rubare, non voglio tornare a frequentare gli ambienti da cui mi sono potuto allontanare. Sono sano, sono forte: non chiedo elemosine, solo di avere un’opportunità”.
Raffaele Fornaro già un mese fa aveva “chiesto aiuto” a Palazzo Zanca: era il 15 febbraio, e in maniera molto civile era “piombato” nell’aula consiliare proprio mentre si discuteva con i rappresentanti sindacali dell’UGL su sulle denunce di irregolarità riscontrate nella gestione del personale da parte di una cooperativa. Allora Fornaro ottenne una “promessa”: non solo lo sbandierato interesse persino da parte del Sindaco, ma anche la possibilità di sottoscrivere una richiesta di contributo comunale, una sorta di “bonus bebè” che lo aiutasse in attesa di trovare un lavoro.
“Di questa richiesta oggi non sapevano nulla – ci racconta Raffaele Fornaro – quel “pezzo di carta” è sparito, senza lasciare traccia”.
Insomma, nessun interlocutore. Nessuno che si prenda carico della situazione. I servizi sociali servono solo a riempire i curriculum di esperti e le tasche del “volontariato organizzato”: se esiste anche solo un caso come quello di Fornaro, il problema è di tutti.
La storia di Fornaro è l’emblema della contraddizione in atto tra uno stato che investe nel recupero delle devianze attraverso gli strumenti del sociale, convinto che dalla detenzione si possa approdare al reinserimento nella cosiddetta “società civile”, e quello stesso stato rappresentato da istituzioni cieche e che a Messina, in particolare, sono incapaci di dare qualità ai servizi sociali.
Uno stato sociale “ a pezzetti”: con microcosmi che funzionano scollegati tra loro, con un carcere in cui non esistono forme di umanità, con un umanità in cui esistono invece molte barriere.