Che tranvata.
A 16 ore di distanza, l’amarezza per l’eliminazione patita dall’Italia al Mondiale non è ancora annacquata, resta intatta.
Sparare sulla Croce Rossa, si sa, è esercizio che agli italiani riesce bene quanto salire in corsa sul carro del vincitore oppure trovare alibi utili a nascondere la polvere sotto il tappeto. Nessuna velleità in tal senso, ma le riflessioni che seguono vogliono essere un umile contributo per cercare di fare un po’ di ordine.
Iniziamo dalla fine, dai doverosi applausi a Cesare Prandelli per le dimissioni presentate coerentemente al termine della sfida di Natal che ha promosso l’Uruguay agli ottavi di finale, a dispetto di un rinnovo fino al 2016 ufficializzato lo scorso 26 maggio. Una persona perbene, Prandelli, cui la vita ha riservato prove ben più ardue da superare rispetto ad un flop iridato, ma che nell’ultimo mese ha totalmente perso la bussola.
A partire dalle convocazioni, troppo condizionate dall’opinione pubblica meno che in un caso. Il 2 giugno Cesare ha voluto dimostrare che, almeno una volta, non si sarebbe piegato al volere del popolo: Giuseppe Rossi? A casa, non è in condizione, all’atto dell’inserimento nella lista dei 30 sapeva già che poi non sarebbe stato tra i 23 (?!). Meglio portare Insigne e Cassano, che in due hanno disputato 98 minuti, 49 a testa, a questi livelli anche Pepito, che resta il miglior attaccante italiano, sarebbe stato perfettamente in grado di dare il suo apporto. Chissà se con esiti migliori…
Portare uno specialista mancino in grado di fare il terzino sinistro nella difesa a 4 o l’esterno nel centrocampo a 5? E perché mai! In fondo De Sciglio si può adattare, Darmian idem e Chiellini ad inizio carriera non aveva fatto male sulla fascia.
Capitolo Balotelli: era stato messo al centro del progetto, ma ancora una volta ha deluso. Un pesce fuor d’acqua, la sua sagoma solitaria sul pullman (quando Pirlo nello spogliatoio si accingeva a tenere il suo discorso di addio alla Nazionale) sintetizza il tutto alla perfezione. Però c’è ancora chi lo difende: tutti brutti e cattivi, all’Inter, al Manchester City, al Milan, in azzurro.
Mario l’incompreso, magari non Super Mario però.
Chi nutriva ancora qualche dubbio probabilmente si sarà definitivamente convinto del fatto che, a dispetto del nomignolo, non è un supereroe né tanto meno un campione; bensì un calciatore potenzialmente ottimo che mai ha fatto della continuità di rendimento un suo punto di forza. Avere mezzi tecnici elevati non è sufficiente, chi fa la differenza soltanto a sprazzi, prendendosi lunghe pause di mediocrità anche nelle grandi occasioni, ontologicamente non è un campione. E il discorso vale a maggior ragione per l’altro uomo dei fumetti, Fantantonio da Bari, presentatosi nella terra del samba con una verve da vecchia gloria. Eppure la condizione fisica aveva rappresentato il parametro assoluto cui il mister aveva ancorato le sue scelte. Le stilettate interne del dopo partita non lasciano adito a dubbi, il nostro non era un gruppo coeso e Prandelli, che non poteva non sapere, avrebbe dovuto salvaguardare l’armonia nello spogliatoio: ogni successo nasce dalla coesione, specie quando le voci fuori dal coro non sono fenomeni assoluti.
Venendo adesso all’annosa questione moduli, premessa doverosa: un commissario tecnico non è un allenatore, nel senso che non ha la possibilità di allenare costantemente il materiale umano a sua disposizione, con tutto ciò che ne consegue in termini di mancanza di tempo per provare schemi e, soprattutto, movimenti. È un selezionatore chiamato a fare lo stilista: agli undici titolari deve fare indossare il vestito tattico più adeguato, generalmente quello utilizzato dalla maggior parte di loro nelle rispettive squadre di club. Troppi esperimenti, troppa confusione: l’unico schieramento ponderato è stato quello contro la Celeste, dal momento che gli 8/11 – tutti i “torinesi” – venivano da un’annata a base di 3-5-2. Ma più che Prandelli la formazione l’hanno fatta stampa e social, Cesare ha vissuto le ore antecedenti “il match più importante” della sua carriera nel modo peggiore, il polso l’ha usato solo per collocarvi sopra un orologio.
Per quanto riguarda la gara di ieri, è stata la gestione dell’incontro a far accapponare la pelle. In conferenza l’ormai ex Ct aveva dichiarato: “Basterebbe un pari contro l’Uruguay? Non pensiamoci, per conseguire obiettivi importanti serve una mentalità vincente, non siamo in grado di scendere in campo per il pareggio”. Dalle parole ai fatti, leggasi approccio e sostituzioni, c’è stato un abisso in cui sarebbe sprofondato anche un Titanic 2.0.
Quel cambio al 46’ (Parolo per Balotelli) – roba che neanche il Trap posseduto da Nereo Rocco – ha ulteriormente trasmesso il messaggio opposto, della serie 0-0 deluxe, difendiamo Fort Apache. Come spesso succede in questi casi, però, arretrando troppo il baricentro – sostanzialmente con due linee di difesa – si finisce col prendere gol. È vero, Godin ci ha castigato quando eravamo già in inferiorità numerica per la sconsiderata espulsione di Marchisio, ma al cospetto di cotanti misfatti si deve sorvolare anche sull’arbitraggio del secondo Moreno della nostra storia. Lo spettro dell’ecuadoriano Byron, che dopo averci fatto fuori dal Mondiale del 2002 fu assicurato alle patrie galere per traffico di droga, è tornato ad aleggiare forte sul deluso cielo italico, ma se la FIFA farà il suo dovere sull’affare Suarez – tanto forte quanto psyco – il messicano Marco Antonio Rodriguez il resto del Campionato del Mondo lo guarderà dal divano unitamente al bomber del Liverpool.
Torniamo a casa meritatamente, nelle ultime due partite in attacco siamo stati ai limiti della nullità. Superare il girone (bissato il nefasto 2010) sarebbe stato un brodino, ma con questi presupposti tecnico-tattici non avremmo potuto fare chissà quanta altra strada, checché ne pensassero gli iper ottimisti (o visionari?) del mese di giugno, che addirittura si erano spinti a paragonare questa Nazionale a quella del 2006. Un po’ come accostare una minestra ad una teglia di lasagne: il dna azzurro è vincente, le stelle sul logo restano quattro, ma la qualità è un’altra cosa.
Lo spiegherà ai nostri rappresentanti della pedata il prossimo responsabile della guida tecnica, che fortunatamente non sarà scelto dal pilatesco Giancarlo Abete. Già, anche il presidente federale si è dimesso, le sue banalissime interviste nell’intervallo – segno più tangibile di una presenza insignificante – mancheranno proprio a tutti.