“Il gioco è in generale un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo. E’ una sorte di tentato ritorno al paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita e dalla necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è bello ma piace”. Benedetto XVI nel 1985 scriveva così parlando del calcio e dell’entusiasmo che possa scatenare una palla che rotola e un mondiale, da qualunque punto di vista: da quello di chi lo gioca e lo vive da protagonista, da chi lo segue appassionatamente sugli spalti, davanti ad una tv, sulle ginocchia del padre.
Il calcio è uno sport meraviglioso soprattutto quando è semplice. E passeggiando per Messina capita anche questo. Un ragazzo di colore cammina sul marciapiede che costeggia la spiaggia, quando da lontano vede su questa un pallone sgonfio, vecchio e usurato. Corre lo prende e inizia a palleggiare: perché la passione non ha colore, razza, e soprattutto non la si compra.
Il calcio, quello vero, quello che noi tifosi amiamo è soprattutto questo: uno sport meraviglioso capace di emozionarti, nel bene e nel male, nel quale non servono i soldi, le divise chic e alla moda che indossano i campioni, tantomeno i capelli gellati o lo sponsor sulle scarpette: basta qualcosa di rotondo, che assomiglia ad una palla, il resto non conta.
Il calcio, anche se difficile descriverlo dopo immagini emozionanti come queste, è soprattutto un piccolo mondo nel quale rifugiarsi quando vogliamo sognare: come quel ragazzo sulla spiaggia. E’ un luogo universale in cui non ci si sentirà mai soli, perché ci sarà sempre qualcuno con cui condividere passione e rivalità, è elemento che unisce uomini di ogni classe ed ideologia, di religioni e credi diversi.
“L’amore per il calcio avviene come quello per una donna – sosteneva lo scrittore Nick Hornby – improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé quell’innamoramento”. Un amore totalizzante e difficile da comprendere.
Ed i Mondiali, probabilmente sono l’evento più importante e coinvolgente che interessi il calcio: quando non si gioca solo per la propria passione, ma soprattutto per il proprio paese, la propria bandiera, anche quando il mondo che ti circonda è costellato da povertà e difficoltà, da bombe, guerre e distruzioni. Un poco come ha fatto la Bosnia, nazione “figlia” della scissione della ex Jugoslavia, per la quale non era e non è tanto importante vincere, quanto piuttosto partecipare.
Il Brasile dal canto suo, patria del calcio è un paese pieno di contraddizioni, in cui il potere economico e sociale è ancora nelle mani di pochi, troppo pochi, e cui il Mondiale verrà a costare oltre 10 miliardi di euro, troppi per tutti i brasiliani che vivono nelle periferie delle grosse metropoli, nelle favelas.
Mentre il Governo da un anno, a causa della crisi è costretto ad aumentare le tariffe del trasporto pubblico.
Perché il calcio è anche business, è inquinato dallo spirito affaristico che assoggetta tutto “alla cupa serietà del denaro, trasformandosi da gioco ed industria, creando un mondo fittizio di dimensioni spaventose”.
Le immagini della polizia che soffoca le proteste a suon di proiettili di gomma, manganellate e lacrimogeni stridono con quel ragazzo sulla spiaggia. Quella dei poliziotti in assetto antisommossa che si scontrano con manifestanti a volto coperto è ormai un’immagine familiare, quasi un simbolo di questo Mondiale che i brasiliani dicono di non volere, pur amando il calcio. Perché quello non è calcio vero.
A quelle di immagini noi preferiamo indubbiamente le prime: quelle belle vere, il pallone non è solo nostro amico, non solo un gioco una passione o un amore, ma molto molto di più.