Francesco Currò, prima di essere un militare, era un figlio del sud. Di un meridione che spesso paga tributi di sangue come prezzo di un “lavoro” in divisa, un rischio che vale la possibilità di una vita migliore, di una “sistemazione”, di una collocazione sociale altrimenti difficile.
La sua salma, di ritorno da una terra martoriata dalla guerra, dove le “missioni di pace” sono il risvolto di una medaglia di interessi economici che molti fanno finta di non vedere, è stata collocata a Palazzo Zanca. Qui, però, nonostante il lutto cittadino proclamato dal Sindaco, l’atmosfera non era certamente quella consona all’opportuno e rispettoso silenzio dovuto alla morte. La pìetas di cui certi personaggi pubblici fanno sfoggio, non ha trovato riscontro nel via vai rumoroso del palazzo, nel bar rimasto aperto, nelle cronache retoriche del “sacrificio per lo Stato”.
E’ in questa contraddizione tra uno Stato che offre il sogno di una divisa e lo stesso Stato che ruba i sogni di tanti ragazzi bloccati da una casta di intoccabili, che cogliamo quell’ipocrisia istituzionale che impone alla nostra sensibilità una riflessione, un passo indietro, la rinuncia alla facile retorica della “speranza di un sacrificio non vano”.
La verità è molto meno facile da sopportare, da avvolgere in una bandiera. Perché nella stessa bandiera dovremmo aver il coraggio di avvolgere tutte quelle altre morti sul lavoro, il lavoro senza divisa militare, il lavoro che rende degno ogni cittadino nello stesso Stato.
Non crediamo all’esistenza di un dolore pubblico. Il dolore è sempre un fatto privato: la storia di Francesco Currò, i suoi sogni, i suoi ideali, le ragioni che lo hanno spinto a rischiare la vita in Afghanistan, appartengono al ricordo di amici e familiari, improvvisamente intrappolati nell’infernale macchina del dolore mediatico.
Già si pensa di intitolargli una scuola. Ma non è di questo eroismo che dovremmo nutrire le nostre speranze. Si rischia di banalizzare anche l’ultima possibilità di morire per un’ideale, che sia superiore persino alla pace. Perché non c’è pace senza giustizia e in un mondo giusto si dovrebbe avere la stessa opportunità di scegliere che lavoro fare, un lavoro la cui dignità, il cui valore, non dipenda da una divisa.