Nell’intervista pubblicata oggi da La Repubblica, Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, lancia un allarme sul sistema penitenziario italiano e sulla concessione di benefici ai mafiosi non pentiti. Ardita denuncia come la buona condotta venga spesso valutata in modo burocratico, aprendo pericolose falle che permettono anche ai boss più irriducibili di usufruire di permessi premio e semilibertà. Un dibattito che si è acceso alle ultime notizie che riguardano la semilibertà concessa a Girolamo Buccafusca e Vito Brusca, due ergastolani affiliati a Cosa Nostra.
Ardita ripercorre l’evoluzione normativa: dopo le stragi di mafia degli anni ’90, ai mafiosi non pentiti era stato precluso l’accesso ai benefici penitenziari. Tuttavia, una sentenza della Corte Costituzionale del 2019 ha dichiarato illegittima l’esclusione automatica, permettendo ai giudici di valutare caso per caso. Questo, secondo Ardita, ha reso il beneficio prima “eccezionale”, poi “possibile” e ora sempre più “frequente”, con un’interpretazione burocratica della buona condotta in carcere.
“Troppo spesso – afferma Ardita – la buona condotta viene decretata sulla base di una lettura burocratica del comportamento del detenuto in carcere. È una situazione che sottovaluta i rischi reali, soprattutto in territori dove l’organizzazione mafiosa è ancora operativa”.
Il procuratore ricorda come, dopo le stragi del 1992, fosse stato imposto un divieto di accesso ai benefici penitenziari per i mafiosi non pentiti. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 ha modificato questo quadro, consentendo la concessione dei benefici anche ai mafiosi irriducibili, purché sia un giudice a valutarne l’ammissibilità caso per caso.
“Quella che doveva essere un’eccezione – prosegue Ardita – è diventata un meccanismo sempre più frequente. Basta una pronuncia di merito che abbassi l’asticella, e si aprono le porte per molti altri detenuti nelle stesse condizioni”.
Ardita mette in guardia dai pericoli legati al ritorno di questi individui nei territori d’origine: “I capimafia irriducibili sono i depositari di un metodo che, negli anni, ha portato al controllo assoluto del territorio, fino a condizionare lo Stato attraverso le stragi del 1992 e 1993”.
Secondo il magistrato, la possibilità che questi mafiosi mantengano un controllo sulle attività criminali anche dal carcere non può essere ignorata. “Oggi ogni mafioso appena arrestato è già nella condizione di comunicare in modo illecito con l’esterno, grazie a strumenti tecnologici come smartphone e computer. Inoltre, la libertà di movimento all’interno delle strutture penitenziarie consente loro di esercitare un controllo gerarchico sugli altri detenuti”.
L’intervista si conclude con un richiamo al necessario equilibrio tra civiltà della pena e prevenzione. Secondo Ardita, “le scelte di gestione delle carceri hanno alterato le condizioni di equilibrio che un tempo esistevano. È fondamentale che lo Stato non abbassi la guardia, per rispetto alle vittime della mafia e alla memoria collettiva”.