La voce dei pescatori: “difendere il patrimonio culturale delle barche a Torre Faro”

Nelle polemiche che circondano le barche sulle spiagge di Torre Faro, spesso si è persa di vista l’importanza culturale e sociale di queste imbarcazioni e delle comunità di pescatori che le utilizzano. In una lettera indirizzata alla nostra redazione, Andrew Crosby, docente e ricercatore in sociologia presso l’Università Cattolica di Lovanio, Belgio, ci invita a riflettere sul valore intrinseco di queste tradizioni marittime, sottolineando come le barche, lungi dall’essere semplicemente elementi di “degrado” o “pericolo”, rappresentino un patrimonio immateriale prezioso. Crosby propone una visione alternativa, in cui la riqualificazione del demanio marittimo non si limiti a considerazioni economiche, ma includa anche il rispetto e la valorizzazione delle pratiche culturali locali.

Il patrimonio culturale di barche e pescatori

A proposito delle barche sulle spiagge di Torre Faro, si è detto di tutto, generalmente in termini peggiorativi. Leggendo i vari articoli di giornale, infatti, le barche vengono sistematicamente associate a “sporcizia”, “degrado”, “abusivismo”, “pericolo”, ecc. Sembrerebbe quasi che sporcizia e degrado fossero prerogative dei pescatori e che il resto di Messina, invece, fosse pulito e splendente. Si potrebbe pensare che le critiche sulle barche siano finalizzate a delegittimare i pescatori e le loro imbarcazioni, per poi privatizzare le spiagge in nome di una “riqualificazione” pensata esclusivamente in termini commerciali e volta ad attrarre una clientela di estrazione sociale medio-alta inclinata a spendere più soldi. Mai si parla della bellezza di queste barche o del modo in cui le pratiche dei pescatori potrebbero contribuire alla riqualificazione culturale del demanio marittimo. In questo articolo, vorrei spezzare una lancia a favore delle barche sulla spiaggia.

Intanto, cosa si intende per “pescatori”? Circolano molti pregiudizi nei loro confronti: non solo vengono visti come fonte di sporcizia, ma anche di falsità. Si sente spesso dire che ormai non si tratta più di veri pescatori, ma semplicemente di amanti della pesca. Pare, infatti, che nessuno di loro possieda la licenza da pescatore professionista (licenza di tipo A), e che tutti siano, al massimo, pescatori sportivi. Oltre ad ignorare l’impossibilità materiale e legale per i pescatori di Torre Faro di ottenere una licenza di tipo A – che implica il possesso di un’impresa e di mezzi significativi – questa narrativa ignora anche l’evoluzione della tradizione. Tale tradizione trova espressioni variegate nei rapporti che i pescatori hanno con il mare. Da quanto ho potuto osservare negli anni in cui vengo a trascorrere le vacanze estive a Torre Faro, questo rapporto mi sembra caratterizzato da una sorta di sacralità. I pescatori osservano il mare costantemente, quasi lo contemplassero. Conoscono le correnti, l’influenza della luna, i venti e persino gli odori del mare – cose incomprensibili per persone come me, che vivono in città. Grazie a questi elementi, sanno se è il momento giusto per pescare, se è pericoloso avventurarsi al largo, se l’acqua è fredda o calda, se c’è più probabilità di incontrare meduse, ecc. In poche parole, i pescatori producono una conoscenza pratica del mare, tramandata da generazioni. Pur corrispondendo a saperi più generali, questa conoscenza è del tutto locale: riguarda lo Stretto di Messina, l’incontro tra il Tirreno e lo Ionio, ed è espressa nel dialetto locale che la rende ancora più concreta (come i “bromi”, le correnti “muntanti” e “scinnenti”, per citare i termini che mi ricordo). Perciò, a tutti gli effetti, vanno considerati “pescatori”, anche se, per motivi legali, lo Stato non li riconosce più come tali.

Il fatto che non vivano più tutti di pesca non significa che il loro posto e quello delle loro barche non debba essere lì, dove è sempre stato. A prescindere dalle evoluzioni sia delle quantità di pesce nel mare che del mercato del lavoro, i pescatori di Torre Faro hanno riadattato l’uso delle loro barche. Penso, in particolare, a come negli ultimi anni si siano organizzati per le traversate a nuoto dello Stretto. Questa organizzazione è meritevole a più livelli. In primo luogo, hanno realmente valorizzato lo Stretto di Messina, attirando sportivi di vari livelli e provenienti da diverse parti del mondo. Si tratta di un turismo sportivo e culturale in cui la bellezza del luogo, la sua storia e mitologia (fare la traversata tra Scilla e Cariddi) sono centrali e coinvolgono la comunità locale anziché consumarla. In secondo luogo, questa organizzazione ha favorito la collaborazione non solo con le autorità, cosa notevole già in sé, ma anche con il tessuto sociale locale, senza il quale non ci sarebbe nessuno ad accompagnare gli sportivi. In altre parole, le traversate dimostrano come i pescatori, grazie alle loro barche e all’uso che ne fanno, costituiscano una vera comunità locale, che inoltre è capace di attirare un turismo rispettoso del luogo.

Questa comunità locale si forma intorno alle barche, cosa visibile specialmente nei mesi estivi. Da quanto ho osservato negli anni, intorno alla barca in spiaggia si sviluppa una vita sociale specifica che si struttura secondo una divisione informale dello spazio. Spesso gli uomini stanno in piedi e, appoggiando i gomiti alla barca, discutono. Quando il sole è troppo forte, montano il tendalino della barca o, seguendo un metodo ingegnoso per quanto è semplice, incastrano un ombrellone sullo scalmo per farsi ombra. Le famiglie allargate, invece, si ritrovano intorno alla barca. Alcuni portano sedie e tavolini e trascorrono intere giornate durante le ferie. Nonni e nonne, figli e figlie, nipoti, cugini e cugine, zii e zie, amici e amiche, ecc. si radunano per passare il tempo, chiacchierando, ridendo, scherzando. I bambini vengono sorvegliati dagli adulti, che così danno una mano ai genitori, permettendo loro di rilassarsi un po’. In questo senso, la barca funge da estensione del vecchio casale familiare, tanto che chi ha dovuto venderla ne parla come se avesse venduto la casa in cui è cresciuto. Essendo un luogo di famiglia e di vita, in alcuni casi la barca diventa anche un punto di riferimento per gli altri frequentatori della spiaggia. Per esempio, in una delle barche dove vado al mare d’estate, è usanza lasciare oggetti smarriti. Diverse volte, dimenticandomi la maschera in spiaggia, l’ho ritrovata il giorno dopo nella barca, pronta per essere usata. Inoltre, le barche offrono ombra. Ci si può riparare dal sole e, a tarda sera, ogni tanto, offrono riparo e intimità alle giovani coppie che non hanno altro (di meglio) dove andare.

La presenza continua intorno alla barca funge anche da controllo sociale. Qualche anno fa, mio zio si divertiva a fare il morto a pancia in giù per rilassarsi. Alla vista del suo corpo galleggiante, alcuni pescatori si spaventarono e si tuffarono in mare per salvarlo. Questo episodio, per fortuna molto comico, dimostra come, grazie alle barche, una sorveglianza quasi costante sia organizzata in modo del tutto spontaneo. È risaputo che spesso le barche vengono anche calate in mare per aiutare bagnanti o altre imbarcazioni in difficoltà al largo. Solo per questo, essere stazionate vicino alla battigia consente di guadagnare tempo, che in certe situazioni si rivela prezioso.

La dimensione sociale delle barche ha la sua equivalenza estetica: ricca, multicolore ed eterogenea. Paragonate la vista delle barche a quella di una spiaggia deserta o di un lido con i lettini allineati quasi fosse un campo militare: austero, statico e senza angoli ciechi. La spiaggia con le barche è più vivace, sia per o suoi colori, che per la loro distribuzione. Quest’ultima, d’altronde mi affascina quasi più di ogni cosa. Per chi, come me, viene da fuori, potrebbe sembrare che le barche siano parcheggiate sulla spiaggia in modo casuale. In realtà, non è così. La posizione delle barche in spiaggia si è sviluppata in modo “naturale” nel corso dei decenni. Quando viene a mancare un pescatore, la famiglia si riunisce per decidere cosa fare con la barca: mantenerla o venderla? Venderla implicherebbe perdere quell’estensione del casale familiare. Mantenerla, invece, comporterebbe altri costi. Infatti, le barche non sono abbandonate lì. I pescatori le mantengono, così come mantengono lo spazio intorno alla propria barca. Tra loro si conoscono e sanno a chi appartiene ogni barca. In poche parole, la disposizione delle barche riflette un’organizzazione sociale informale che, pur non essendo perfetta, garantisce un certo ordine e una certa stabilità. Se i pescatori non riconoscessero come legittima la distribuzione delle barche sulla spiaggia, e ognuno spostasse la propria barca alla prima occasione, ne risulterebbe il caos. Eppure, in tutti gli anni che vengo qui, non ho mai assistito a una situazione del genere.

Le uniche volte in cui ci sono state discussioni, è stato quando i villeggianti estivi si sono lamentati della posizione delle barche. Le richieste dei villeggianti rimettono in discussione quest’ordine sociale stabile, di cui per il resto dell’anno non si preoccupano. Da questo punto di vista, però, i pescatori hanno sia il vantaggio pratico che morale di occupare ed occuparsi di quel pezzo di spiaggia tutto l’anno, e non solo d’estate, quando fa comodo andare al mare. Così, per i pescatori, i commenti sulle loro barche sono percepiti come sgradevoli, se non come insulti veri e propri. La verità è che questi commenti e le relative politiche esprimono un disprezzo di classe verso un gruppo minoritario con delle usanze antiche, e contribuiscono a destabilizzare un ordine sociale tradizionale in via di estinzione. Basta guardare le vecchie foto di Torre Faro per capire quanto questo patrimonio culturale locale sia stato ridotto a pochi metri di spiaggia.

Quest’estate, alcuni amici dal Belgio sono venuti a trovarmi a Torre Faro. Una mattina, scendendo al mare, mia madre si è scusata per le barche, quasi a voler dire “non è un lido comodo” (mia madre non ha il mio stesso punto di vista). Questi miei amici, invece, le hanno risposto “altroché”. Non riuscivano a credere di aver trovato un tratto di mare e spiaggia che rifletteva lo spirito del borgo marinaro, che non fosse stato trasformato in un lido acchiappa-turisti e costoso.

Certo, non tutto è perfetto, ma la perfezione non esiste (infatti, non bisogna mai fidarsi di chi esige la perfezione!). Il sistema che un giorno potrebbe rimpiazzare le barche non sarà perfetto nemmeno lui, e non è detto che porterà pulizia e rispetto per il luogo. Di sicuro, però, farà scomparire queste forme locali di vita sociale e culturale. Invece, una vera riqualificazione del demanio marittimo dovrebbe tenere conto anche di queste realtà, della tradizione e delle sue evoluzioni. Anzi, direi che la riqualificazione dovrebbe trarre lezioni da queste riflessioni e riconoscere che: le usanze, il sapere e l’organizzazione di questa comunità di pescatori formano un patrimonio immateriale del luogo, e che perciò i pescatori sono un punto di riferimento necessario per una vera riqualificazione del demanio marittimo.

Uno studio che si limiti a censire le barche non potrà mai rilevare lo spessore socio-antropologico che gravita intorno alle barche. Sarebbe necessario uno studio più qualitativo, che approfondisca la nostra conoscenza delle pratiche, degli usi e dei costumi locali legati alle barche e che ci informi su come preservarli. Senza tale studio e senza una riflessione che coinvolga i pescatori, ogni riqualificazione non sarà altro che violenza (sia fisica che simbolica).

FIRMATO

Andrew Crosby, Docente e ricercatore in sociologia all’università cattolica di Lovanio (UCL), Belgio

 

 

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