di Palmira Mancuso – La strage di Capaci per quelli della mia generazione ha avuto lo stesso impatto dell’11 settembre. Tutti ricordiamo cosa stavamo facendo mentre giungeva la notizia dell’attentato. Allora non c’erano i cellulari e le notizie non correvano veloci. Quel 23 maggio poi, io non avevo idea di chi fosse Giovanni Falcone. Avevo appena concluso un pernottamento con il mio gruppo scout, e stavamo tornando giù dalla fiumara del torrente San Michele, intenti come sempre, noi adolescenti dell’epoca, a parlare di massimi sistemi e voglia di cambiare il mondo o quantomeno di capirlo. Nei minuti che ci separavano dal bus in arrivo per tornare verso la sede di Ganzirri, il nostro capo Nicola Minutoli aveva avuto il tempo di comprare il giornale. Fu allora che mi resi conto di cosa era accaduto. Un grido di dolore e il pianto al titolo che strillava che il giudice Falcone era stato assassinato. E senza troppe parole, capimmo tutti che le nostre vite, il nostro impegno ovunque ci avrebbe condotto, sarebbe passato da quel momento. Fummo nostro malgrado, noi giovani di allora, protagonisti di quella stagione delle lenzuola bianche. Anche da Messina partimmo coi pullman verso Palermo, per stringerci, abbracciarci, dire a noi stessi che avremmo detto basta alla mafia.
Da quella bomba sono trascorsi 32 anni, molto è cambiato in una Sicilia dove purtroppo anche la mafia ha cambiato pelle. Camaleontica e capace di infinite risorse, ha cambiato ogni paradigma, continuando a fare quello che ha sempre fatto senza bisogno di sparare: affari, controllo del territorio, delegittimazione degli oppositori, presenza nelle istituzioni attraverso ingerenze nel consenso elettorale.
Cambiare il significato delle parole fino a svuotarle di senso: questo mi pare oggi lo strumento più usato allo scopo di mostrare la propria potenza. E sta a noi siciliani di oggi, orfani di Sciascia, tornare a leggere quelle pagine che ancora ci aiutano ad indossare le giuste lenti. Quelle che ci permettono di non confondere il garantismo praticato, da quello mielato e sbilanciato per i propri interessi; di non confonderci tra il maremagnum dei social che quotidianamente cercano di normalizzare gesti e parole che arrivano negli schermi e nella solitudine dei singoli. Con un unico messaggio politico: “sono tutti uguali”, “non cambia nulla”, o peggio “hanno vinto loro”. E allora perché impegnarsi pubblicamente, quando è più comodo trovare una strada qualsiasi che ci permetta di vivere nella terra del sole e del mare? Perché in Sicilia ci sono persone Capaci che non vogliono essere costrette a lasciare radici e affetti perché semplicemente non vogliono chiedere il favore di lavorare o di fare un intervento chirurgico saltando la fila, ma operano per il diritto al lavoro e ad un accesso trasparente, per il diritto alla sanità. E potrei continuare.
Questo 23 maggio è dei siciliani. Quelli che silenziosamente ogni giorno scelgono. E che hanno il dovere di creare dove possono le condizioni affinchè sia possibile scegliere alla luce di un solo diritto universale: quello della conoscenza. Conoscere il linguaggio della mafia è riconoscerne il portato culturale che ci portiamo dietro, quel sistema clientelare che confonde il diritto col favore, il servizio con il privilegio.