C’era una volta, nel fatato regno democratico che sorgeva in riva allo Stretto, un sovrano dai modi garbati e gentili, così gentili che circa ventimila anime lo osannavano ad ogni richiamo (elettorale). Il regnante il cui castello sorgeva su una Rada, era un vero e proprio “traghettatore” di uomini e donne, in grado di accompagnare i suoi fedeli da un’era all’altra della Repubblica senza far minimamente avvertire il passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo. Egli non era un riformatore, ma più propriamente un “formatore”. Era il tempo in cui da una parte c’erano i suoi sudditi, meglio noti come “genovesiani”, che in egli scorgevano un riferimento e che lo accoglievano festanti al passaggio nella pubblica via, mentre dall’altra c’erano “gli altri”. Questi “altri” costituivano di fatto una sparuta minoranza della popolazione democratica: talvolta bisbigliavano, altre volte invece urlavano il proprio dissenso, senza riuscire a deporlo mai peró. Giunse poi il tempo delle decisioni, quelle popolari (democratiche ed extra democratiche, di tutti insomma) e dopo mesi di confermata devozione al sovrano e al suo fidato parente -anch’egli reggente-, il delfino prescelto come vicerè, nonostante le riconosciute capacità dimostrate sul campo, si vide voltare le spalle da quei sudditi fino ad un istante prima così fedeli al trono. I cittadini avevano preferito cambiare dal basso, riversando sul “felice” nobile colpe non sue.
Fatto sta che il vento stava già soffiando in direzioni differenti da un po’ e “gli altri”, inizialmente identificabili in pochi ribelli, aumentavano di numero, reclamando rispetto di regole e peso decisionale che spesso gli erano stati negati, nonostante essi fossero impegnati e costanti nella loro devozione al regno, seppur non al reggente capo.
Avvenne un dì che la situazione si ribaltò e quegli stessi “altri” iniziarono ad avere un nome ben preciso: dapprima furono i renziani, poi ad essi si sommarono i civatiani e i cuperliani. Mentre i loro capiarea si facevano avanti in modo più o meno palese, per assumere incarichi imperiali (come segretari di partito insomma), nel regno dello Stretto si invertivano i ruoli. Ecco la nuova dicotomia: nel villaggio democratico adesso la veste di “altri” era indossata da chi prima si chiamava genovesiano: una schiera di soldati la cui visibilità appariva ora coperta da una coltre di mistero. Loro non si sentivano più, loro non si esponevano più, loro non si vedevano più e così i renzi-civat-cuperliani, tutti insieme appassionatamente, cercarono di recuperare terreno, dopo un ultimo simposio familiare (l’assemblea provinciale) trasformatosi in scontro fratricida. In quell’occasione tutt’altro che gioviale, gli uni puntavano il dito contro gli altri (senza virgolette), imputandosi reciproche responsabilità per la disfatta del delfino, quello stesso nobile cavaliere che era stato ad un tempo amico degli “altri” ma che in un passato ancora dai colori vividi aveva tuonato contro i Dioscuri, affermando come essi fossero, di fatto, stati diseredati. Non più fratelli, non più membri della stessa famiglia.
Un incontro tra i saggi e i giovani (ancora l’assemblea sopra citata), conclusosi con la nomina di un reggente, una figura garantista d’oltre confine, un essere quasi mitologico nel quale confidare: mezzo uomo e mezzo Lupo. Il comune denominatore delle diverse coscienze del regno democratico divenne dunque l’attesa, quella che separava dalle scadenze congressuali.
Ormai avvezzi a far fronte comune, seppur con le dovute differenze tra loro, i giovani turchi (nell’accezione democristiana che fu) iniziarono ad interloquire spesso con i cantastorie del reame (i giornalisti), in modo che il popolo tutto ne conoscesse le posizioni sulle faccende concernenti la famiglia (il partito) e le successioni dei reggenti.
Richieste chiare e precise accompagnarono l’estate degli innovatori. A Castore, Polluce (Quero-Russo, identificabili nei Dioscuri nell’ordine che preferite) e Giacomo -D’Arrigo, anche se detta così sembra quasi il terzo di Aldo e Giovanni-, si aggiunsero messere Giuppi (Siracusano), mastro David (Piero) e sir Hyerace (Armando). “Vogliamo che il Pd sia democratico davvero, cosa che non è”, tuonavano in coro.
Tre i punti focali della loro richiesta “rivoluzionaria”.“Il tesseramento va fatto in modo trasparente con iniziative specifiche”, chiariva Siracusano. “La tesoreria si deve gestire in maniera collegiale”, continuava D’Arrigo. “Ripristinare il rispetto delle regole”, era la pretesa del gruppo avanzata per bocca dell’Argonauta Russo. “Tutto il partito viene penalizzato perchè la classe dirigente viene selezionata per cooptazione e non per merito”, continuava David. “E’ una legge sociologica per la quale così facendo vengono premiati i peggiori”, concludeva, dando il là al suo vicino di posto, candidato al consiglio (comunale) del reame, il pacato messere Giuppi: “noi parliamo a chi vuole avvicinarsi al Partito Democratico con onestà. E perchè queste risorse non vadano sprecate-e sono in tanti-bisogna ristabilire regole democratiche”.
Che la richiesta in sé non fosse nuova lo spiegava in quella cupa mattina settembrina (oggi!) anche sir Hyerace: “è un tema sul quale ci battiamo da dopo le amministrative, ma non deve essere stato colto fino ad ora dal reggente”, l’uomo-lupo. “Sarà troppo preso dalla ricerca di un posto per sè in giunta”, ghignava ironico D’Arrigo, guardando alle vicende dell’antico Palazzo dei Normanni.
Ma nessun giullare in questa corte: solo un po’ di sana ironia che non guasta dato il panorama tragicomico che si profilava tanto nel regno quanto nell’impero democratico tutto, tra incertezze e alleanze sempre più instabili. Appariva all’orizzonte una fragilità di equilibri già vista, un possibile ulteriore ribaltamento nel gioco dei ruoli tra “loro” e “gli altri”.
Dalla capitale possibili stravolgimenti e nel regno stesso l’attesa dei giudizi -per stabilire il futuro del trono- stava per concludersi: poco prima che i fiocchi di neve fossero caduti dal cielo, infatti, i cittadini dello Stretto avrebbero conosciuto il responso del giudice supremo. Questi era l’unico in grado di accettare o meno le rimostranze del medico di corte che, leso il suo amore per la verità, ebbe a reclamare chiarezza sui consensi con i quali era stato incoronato il nuovo re(nato), appena dopo l’ultimo solstizio.
In caso di positivo esito alla contestazione del seguace di Ippocrate (Cocivera), la famiglia (quella cittadina, non solo i democratici) avrebbe trovato nel giovane cavalier “felice”, la cui sconfitta primaverile non aveva ancora trovato colpevoli ufficiali, il legittimo sovrano della città. Ma un tribunale morale avrebbe chiesto chiarezza sulle responsabilità dell’accaduto, in quel caso, e questo avrebbe certamente portato alla condanna dei responsabili o anche solo all’individuazione di capri espiatori da penalizzare per la salvezza degli “altri”, qualunque fosse la nuova accezione del virgolettato.
I ribelli che, in precedenza, eran già finiti su quell’altare del sacrificio questo lo sapevano bene, ma andavano avanti. “Io chiedo chiaramente che Genovese e Rinaldi si dimettano”, rincarava temerario il signore della quarta area del regno fatato (Quero); “loro non sono miei compagni di partito!”.
Per mettere la parola Fine a questa atipica favola si dovrà attendere un epilogo che stenta ancora a figurarsi al cospetto degli osservatori e dei protagonisti stessi della vicenda. C’è da credere che, peró, qualcuno dei protagonisti di questo racconto non rientrerà nei “tutti” che vissero “felici e contenti” e farà invece parte della tanto bistrattata schiera degli “altri”. (ELEONORA URZI’)