di Saverio Di Bella – L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (Art. 1 Cost.)
Primo Maggio 2020: Nessun corteo di contadini e braccianti col vestito della festa, il fazzoletto rosso al collo, le bandiere rosse in pugno, la fisarmonica e le chitarre che suonano l’Inno dei lavoratori, bandiera rossa, l’internazionale con i partecipanti – uomini, donne, bambini – che cantano e marciano allegri verso la cittadina o il Comune dove si svolgerà la manifestazione per la festa del lavoro. Perchè non siamo più negli anni del secondo dopoguerra, con i contadini e i braccianti senza terra che assaltano i latifondi, affrontano la mafia, non piegano le ginocchia di fronte alla violenza omicida di chi è braccio armato dei padroni e chiedono con forza che la Costituzione conquistata con la Resistenza sia realizzata.
Hanno bisogno di lavoro, di terra, di pane, di libertà. Hanno lottato sulle montagne del Piemonte, sugli Appennini tosco-emiliani, nell’esercito del Regno del Sud. Sanno benissimo che per loro la guerra non è finita con l’insurrezione e la vittoria del 25 aprile. Per loro la guerra continua perché negli immensi latifondi della Sicilia, della Calabria, della Puglia, della Lucania, del Lazio il blocco agrario non è disposto a cedere loro la proprietà della terra. E non bastano i decreti Gullo del 1944, la vittoria del 25 aprile 1945 sul nazi-fascismo, l’ulteriore vittoria nel Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, non basta la nascita dello Statuto Speciale del 1946 per la Regione Sicilia perché la voce dei contadini senza terra e dei braccianti senza pane venga ascoltata. Per loro c’è il piombo della lupara e del mitra delle mafie.
Perciò il primo maggio vive – 1947 – la strage di Portella della Ginestra e il primo maggio degli anni successivi è un primo maggio di lotta che ha come obiettivo la distruzione del latifondo, la disintegrazione del blocco agrario, la terra in proprietà a chi la lavora.
Sono anni – quelli del secondo dopoguerra – eroici. Il latifondo viene conquistato, il blocco agrario viene distrutto e cade nella pattumiera della storia. Ma la conquista della terra viene resa vana dal fatto che ai contadini non vengono dati i mezzi e gli strumenti per lavorare la terra conquistata, per renderla produttiva.
Il capitalismo italiano, la borghesia italiana vogliono che contadini e braccianti siano ancora poveri; vogliono che la loro vita sia ancorata alla miseria o alla speranza di trasformarsi in operai. Hanno bisogno di manodopera per l’industria, di quello che diventa noto come triangolo industriale nell’Italia del miracolo economico: Torino, Milano, Genova. E così i contadini, che hanno vinto la battaglia contro i latifondisti, capiscono e toccano con mano di avere perso la guerra contro il capitale. E di avere perso anche le radici che gli hanno dato una identità forte come siciliani, come calabresi, come pugliesi. Le loro famiglie di spaccano sotto l’effetto dell’emigrazione. Quando tornano a casa per le vacanze i figli piccoli non li riconoscono più. E allora decidono che l’intera famiglia deve emigrare. Tenteranno di mettere radici, di cambiare vita, lavoro e orizzonti per i propri figli nel Nord.
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Questi ricordi del primo maggio di tanti anni fa affiorano alla memoria quasi con violenza, e non solo con nostalgia in questo primo maggio 2020. Un primo maggio che non vedrà cortei, né bandiere rosse, né fazzoletti rossi al collo degli operai o dei contadini ancora sopravvissuti alla diaspora e non vedrà bandiere rosse nelle mani sempre callose di contadini o di operai. Non avrà più neanche il suono delle fisarmoniche o delle chitarre, né i cori di donne, braccianti e dei bambini loro figli che salutavano già col pugno chiuso e intonavano con orgoglio l‘Internazionale.
I tempi mutati hanno già portato in piazza – esempio classico Piazza San Giovanni a Roma – le band musicali, i cantanti famosi. Sempre bello. Sempre di massa. Sempre per il lavoro e la libertà. Ma è un’altra dimensione.
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Capisco bene che le società si trasformano, che mestieri e lavoro partecipano alle rivoluzioni produttive e affrontano la sfida della cibernetica, dell’automazione, del lavoro a distanza, della robotica.
Mi piace pensare, però, e sognare che il sogno di una società nella quale il lavoro sia davvero il fondamento della Repubblica e della sua democrazia; nella quale il principio di uguaglianza nella dignità delle persone, nelle opportunità offerte, nello studio, nella tutela della salute, nella parità tra uomo e donna, nel superamento dell’emarginazione del Mezzogiorno e delle donne, sia esattamente quello che avevano allora e sia nel cuore e nella mente di ciascuno di noi viva e infuocata, vulcanica la volontà di lotta per cancellare ingiustizie, disuguaglianze, oppressioni sociali e povertà. Perché il patrimonio, che con gli anni ci lasciano come eredità eroica, è proprio questo.