di Tino Carrozza – Lo scorso 17 luglio è morto a Roma Andrea Camilleri, conosciuto al grande pubblico come lo scrittore della serie di libri di successo del commissario Montalbano ma che ha trascorso la sua vita, perlopiù nel secolo scorso, da protagonista della vita culturale italiana grazie alla sua attività nella televisione pubblica ed in seguito anche nel teatro e nel cinema. Da ricordare come testamento spirituale, morale e civico la sua Conversazione con Tiresia del giugno del 2018. Di fede politica comunista, le storie di Camilleri riflettono la sua attenzione morale nei confronti degli ultimi e degli scartati dalla società, come pure la sua umanità.
Si è detto che Camilleri ha vissuto la vita culturale italiana da protagonista, ma il successo gli è arrivato grazie alla riuscita e fortunata serie di romanzi, prima che televisiva, il commissario Montalbano; indimenticabile la battuta, familiare ormai agli italiani, “Montalbano sono “.
Però Camilleri non è solo il padre del commissario Montalbano, è anche lo scrittore di romanzi storici come “Il Birraio di Preston” e di altri dedicati a figure dell’arte. Ma è della Sicilia di Montalbano che vogliamo parlare.
“Il commissario Montalbano” è ambientato a Vigata una immaginaria cittadina della Sicilia, i principali luoghi di ambientazione sono il commissariato e la casa di Montalbano stesso, ma sono frequenti le apparizioni di case signorili ed eleganti, dei vari testimoni od indagati nelle indagini di turno.
Montalbano è circondato dalla sua squadra di poliziotti tra cui il fidato Fazio ed il vicecommissario, don Giovanni, Mimì Augello.
Ed è partendo da lui che vogliamo iniziare un riflessione sulla Sicilia di Montalbano.
Non poteva mancare , infatti, ad una descrizione ed interpretazione stereotipata della nostra isola il “femminaro” di turno, come neppure poteva mancare il protagonista principale , a volte duro e brusco nei modi: Montalbano stesso. Perché è sullo stereotipo che Camilleri ha giocato abilmente, dove il protagonista , uomo di legge, non sempre si conforma alla legalità nel suo agire, chiude un occhio spesso su violazioni – non arresta una volta la colpevole di un auto-rapimento per “sanare” una ingiustizia passata – e si fa addirittura cucinare i pasti dalla madre di due galeotti.
Essendo Camilleri poco o per niente attento alle problematiche spirituali, non c’è salvezza nelle vicissitudini del commissario, la morte arriva senza una consolazione, e la vita sembra scorrere in balia o del caso o del destino cieco.
Tra le fila dei personaggi più frequenti nelle apparizioni dei romanzi compare anche un vecchio mafioso che, a perpetuare lo stereotipo, è delinquente sì, ma non smette di essere pio e devoto; ed afferma anzi che non si pentirà di fronte ai giudici dello stato ma solo di fronte a Dio.
In ultima analisi la Sicilia di Camilleri non è una terra bella ma ricca di contraddizioni, è piuttosto un’isola ipocrita e lenta che vive trascinandosi tra una distrazione, anche femminile, ed un’altra come fosse senza un orizzonte da rincorre od un futuro da inseguire ma un eterno presente nel quale giggioneggiare; un’isola dove anche gli uomini di legge sono colpevoli e gli uomini di chiesa a volte corrotti ma tutto viene perdonato perché c’è sempre un cannolo da assaggiare, un arancino da gustare e qualche bella fimmina da conquistare e portare a letto.