Nuovi scenari si aprono sul caso “Attilio Manca” in seguito alle pesanti dichiarazioni rilasciate poche ore fa da Massimo Ciancimino al giornalista Daniele Camilli in merito alla presunta vittima di mafia sulle quali incombono le ombre delle verità nascoste legate alla latitanza di Bernardo Provenzano. Proprio Daniele Camilli, grazie alla sua attività giornalistica connessa al blog “Il contesto quotidiano”, ha realizzato diverse inchieste che hanno permesso di denunciare le infiltrazioni mafiose nella città di Viterbo, città con la quale si intreccia il destino di Attilio Manca, medico urologo trovato morto nella sua abitazione il 12 Febbraio 2004 in circostanze misteriose: dapprima archiviata come suicidio provocato da overdose da mix letale di sostanze stupefacenti, la dinamica della morte non ha mai convinto i familiari della vittima, dal momento in cui i due fori provocati dalle iniezioni letali furono trovati sul braccio sinistro di Attilio che però, essendo mancino, non avrebbe mai potuto iniettarsi le sostanze da solo. Da qui l’opposizione all’archiviazione e il sospetto che il decesso di Attilio Manca sia collegato alla necessità di coprire l’intervento subito da Bernardo Provenzano, operato alla prostata presso la clinica “La Ciotat” (Marsiglia) da un’équipe medica composta da Philippe Barnaud e dagli specialisti Breton e Bonin, gruppo al quale secondo alcune intercettazioni si sarebbe unito anche l’urologo veneto( un’ipotesi, quest’ultima, mai sostenuta da Pietro Grasso). A questi particolari si aggiungano le dichiarazioni dell’avvocato della famiglia Manca, Fabio Repici, il quale il 15 ottobre 2012, in risposta al quarto tentativo da parte della Procura di Viterbo di chiudere il caso, ha ribadito la sua posizione già sostenuta qualche anno prima (precisamente nel 2009) secondo la quale le indagini della stessa Procura sarebbero state e continuerebbero ad essere “lacunose e ricche di incongruenze investigative”.
A rincarare la dose circa i mille sospetti di una collusione fra le istituzioni e la mafia volta ad insabbiare la vicenda arrivano le pesanti dichiarazioni di Massimo Ciancimino che dunque lasciano presagire, senza troppi giri di parole, drammatiche responsabilità fino ad ora rimaste coperte: “Sia mio padre che Provenzano erano tutti e due afflitti da cancro alla prostata. E i due si consultavano sulla loro malattia. Provenzano cercava a Roma un bravo urologo. Tant’è che s’era rivolto a mio padre. Poi ha preferito operarsi fuori. Non si vuole parlare del caso Attilio Manca, perché non si deve parlare di tutto quello che ruota attorno alla latitanza di Provenzano. C’è un vero e proprio imperativo a livello nazionale. Una figura, quella del boss della mafia, che ho visto muovere in tutta Italia con garanzie e protezioni di ogni tipo. Quindi, il problema non è il caso singolo, cioè la morte di Manca. Il problema è il contesto generale, ossia decenni di latitanza su cui non si deve andare fino in fondo. È un problema di “ragion di Stato” per non far apparire le responsabilità reali delle istituzioni.”
Eccola dunque tornare preponderante l’immagine del Paese dalle mezze verità, un paese in cui in ormai 10 anni la giustizia non ha saputo (o voluto) fare il suo corso. A questo proposito, abbiamo intervistato Gianluca Manca, fratello di Attilio, che ci ha gentilmente concesso alcune dichiarazioni: “Oggi è un giorno felice, un giorno un cui si riapre uno spiraglio per mio fratello, e voglio condividerlo con tutti. La Procura di Viterbo adesso non può far altro che mettere la testa sotto la sabbia, come fanno gli struzzi, anche se sono sicuro che il Gip darà disposizione di un supplemento di indagine. Sono troppe le coincidenze sulle quali non si è indagati e non si può ignorare neanche la prova più lampante e cioè il mancato ritrovamento delle impronte di mio fratello o di terzi sulle siringhe, così come il mancato ritrovamento di eventuali guanti. A questo aggiungo anche l’incredibile silenzio della DDA di Roma, piuttosto anomalo rispetto ad una vicenda chiaramente legata ad implicazioni mafiose. Renato Guttuso diceva che in Sicilia abbiamo tutto fuorchè la verità: io non voglio una giustizia cattiva, ma una giustizia vera, voglio risposte certe e precise sulla morte di mio fratello. Le risposte fin qui ottenute non hanno nulla a che vedere con il diritto e la procedura penale”.
Nel giorno della sentenza nel processo Mori, inquadrata nell’ambito della trattativa stato-mafia, nuovi inquietanti e scabrosi particolari emergono fragorosi, destinati (si spera) a chiarire una volta per tutte una delle pagine più oscure della storia Italiana.(nella foto di Dino Sturiale la famiglia Manca con il magistrato Ingroia)
(ROBERTO FAZIO)