di Gabriele Fazio per Agi – Baglioni pensa bene di accompagnare il suo ultimo trionfale ingresso sul palco del festival con “E adesso la pubblicità”, canzone che, tra l’altro, eseguirà per intero prima di ogni stacco pubblicitario. Auguri. Piccola nota a margine: nell’ottica di completare la propria matrioska di conflitti d’interessi, tutti gli elementi del corpo di ballo sono suoi nipoti. La coreografia, che consiste nel dimenarsi drammaticamente su una sedia con un telecomando in mano, è stata montata riproponendo i tanti video postati sui social dopo l’esibizione dei Boomdabash.
Il total white di Baglioni e la mise di Virginia
Baglioni è vestito totalmente di bianco; elegante, professionale, bravo, però se ci porta l’acqua gasata che abbiamo chiesto mezz’ora fa ci fa un piacere. Nel pippone inaugurale sostiene di avere “la polvere sulle spalle”, vedi a chiamare Il Volo? “Nessuno saprà mai se si poteva fare meglio”, beh, la prossima volta prova a non invitare la Tatangelo e vedrai che tutto ti apparirà più chiaro.
Il primo abito di Virginia Raffaele è stato disegnato dal proprietario di un sexy shop ultrà del Milan. Lo sketch iniziale con i tre conduttori che mimano la parola “regolamento” è degno del peggior Bagaglino, aspettiamo con ansia l’intervento di Martufello per salvare la situazione e le nostre anime.
I cantanti in gara
Daniele Silvestri (8): La differenza tra un prodotto da vendere al miglior offerente, tra chi utilizza la musica per soddisfare la propria fame di consenso e chi invece porta avanti un progetto musicale serio, necessita, in questa italietta di canzonette e “despaciti” di essere sottolineata il più possibile, affinchè si crei un solco netto e si mettano qualche volta da parte i numeri per far avanzare il merito, per abbandonare questa costante mediocrazia che ci governa (…).
Ecco “Argentovivo”, a prescindere dal messaggio ottimamente espresso e che giustamente crea dibattito (come solo l’arte fatta come si deve può e riesce), rappresenta il felice incontro musicale tra tre, facciamo quattro inserendo anche Manuel Agnelli, universi musicali così diversi e di così alto livello. Da quello autoriale di Silvestri a quello giovane e irriverente di Rancore, passando dall’underground del frontman degli Aferthours a quello musicalmente eccellente, anzi d’eccellenza (e troppo poco messo in evidenza) di Rondonini, che fa cantare la batteria divenendo parte integrante del messaggio.
Con la terza vittoria in carriera del Premio della Critica diventa, insieme a Mia Martini, alla quale lo stesso premio è dedicato, l’artista italiano che lo ha vinto più volte, consacrandolo ufficialmente, qualora ce ne fosse bisogno, come uno dei più illustri e interessanti cantautori della storia della musica italiana. Si lo abbiamo scritto e ne siamo fermamente convinti. Una goccia di speranza. Grazie.
Anna Tatangelo (4): La Tatangelo piange alla fine dell’esibizione, strano, noi durante. Vabbè, ci vediamo l’anno prossimo Anna, è stato bello rivederti, ascoltarti molto meno.
Ghemon (7): sempre più sicuro, sempre più convincente, sempre meno semplicemente rapper e sempre più autore, sempre più artista, uno di quegli artisti necessari. Avevamo qualche dubbio nel vederlo catapultato sul palco dell’Ariston, direttamente dai clubbini di tutta Italia. Ma ora abbiamo capito: Ghemon è uno di quegli artisti necessari, uno di quelli che può sdoganare temi toccanti con un sound che prende generazioni più piccole. Si spera. Bravissimo. P.s.: solo noi notiamo una somiglianza strabiliante con un giovane Maurizio Micheli?
Negrita (7,5): Non so quando rivedremo i Negrita sul palco dell’Ariston, non certamente a fine puntata, perché Sanremo non è la loro dimensione, ed è ammirevole il fatto che loro per qualche minuto siano riusciti a piegare la tv alle loro movenze rock. Il rock necessita di un’epica che loro incarnano, in maniera del tutto diversa e molto più underground rispetto a Vasco Rossi e Ligabue, ma a differenza del primo loro ci sono molto più di quanto ci fanno e a differenza del secondo non si sono lasciati andare al pop. È stato bello finché è durato.
Ultimo (4): Il ragazzo romano in lenta fase di trasformazione in Ermal Meta, quando canta fa una faccia che sembra sempre che gli scappi di andare urgentemente in bagno. Strano, perché è l’esatta reazione che ci provoca l’ascolto della sua canzone. Stravince la classifica degli ascolti in streaming, a dimostrazione di quanto sia diventata pericolosa la rete, e stravincerà anche questo festival, a dimostrazione di quanto sia culturalmente deprimente questo paese.
Nek (4,5): La collocazione musicale di Nek al momento ci sfugge, forse perché ci sfugge, nonostante il bene che gli si vuole, essendo un personaggio che non ha mai fatto finta di essere ciò che non è, chi possa mai scegliere di intrattenersi con la sua musica. Cioè…fa ancora concerti? E qualcuno ci va? Intendiamoci, ci speriamo davvero, è solo che proprio non immaginiamo la scena. Tutto qui.
Loredana Bertè (5,5): Stasera la Berté è in gran forma, canta benissimo e con una grande intensità, forse perché al posto suo sale sul palco Elio con una parrucca blu. Le sfugge il Premio della Critica ma in compenso arriva la proposta per interpretare il ruolo di cattivo nel prossimo Batman. Meglio di niente.
Francesco Renga (4,5): Hanno funzionato le scuse pubbliche dopo l’infelice uscita di stanotte al Dopofestival, quando ha dichiarato che la voce maschile risulterebbe scientificamente più gradevole alle orecchie rispetto a quella femminile, tant’è che Virginia Raffaele lo presenta con particolare garbo: “a voi Omar Pedrini!”. Poi, diciamocelo, sta storia della voce maschile, detta da Frank Sinatra… ma da Renga, non ce ne voglia, ma fa proprio ridere.
Mahmood (6): Piccolo incidente in apertura di esibizione: il secondo microfono utilizzato dal ragazzo di origini egiziane, purtroppo, funziona. Un momento divertente quello di Mahmood, proprio perché leggero, fumoso, utile giusto a farci sgranchire le gambe. Ma niente di più. Nonostante ciò la sua vittoria è significativa, scritta nel destino di questo festival potremmo dire. Che parte con una polemica sui migranti e finisce nel celebrare un italiano di origini egiziane. Alla faccia del Sanremo senza politica!
Ex-Otago (6,5): è proprio il palco dell’Ariston che gli sta stretto perché la canzone è molto bella. Ben scritta, zeppa di intuizioni più che corrette. Diventerà un grande classico della loro ancora breve discografia, specie quando si libereranno degli orpelli televisivi e potranno tornare a sudare sangue davanti al loro pubblico.
Il Volo (0): Ogni volta che prendono un microfono in mano in pubblico la storia della musica italiana torna di colpo indietro di 80 anni. Bastasse togliere il volume per salvarsi, ma sono anche le loro espressioni da soap brasiliana di serie b a rendere ogni loro apparizione una parodia. Anche solo il fatto che abbia rischiato di vincere rappresenta una sconfitta senza appello per la cultura italiana. Per piacere, andiamo avanti, tutto ciò non è sano.
Paola Turci (6): Una bellezza che fa girare la testa, che non ci permette nemmeno di essere lucidi nel giudicare. Impressionante la capacità di mantenere classe ed epica, ma soprattutto ben 54 anni sulle spalle. 54. Scioccante. Allora visto che stiamo qui a giudicare il pezzo le diamo la sufficienza, perché funziona, va benissimo, anche se non ci resterà impresso nella memoria per sempre, ma per tutto il resto 10 pieno, convinto.
The Zen Circus (8): Intendiamoci, per chi non conoscesse la discografia, gli Zen avrebbero potuto portare un pezzo molto più ruffiano, molto più semplice, senza forse nemmeno cedere alla tentazione di strizzare l’occhio al messaggio politico fine a se stesso, anzi alla classifica. Invece si presentano con un monologo rock senza ritornello, che ti inchioda senza darti tregua. E alla fine del pezzo ti vien voglia di alzarti dal divano e andare a correre per strada. “Si Zen! Diteglielo chiaro e forte!”. Oppure potreste restare indifferenti, scrivere post razzisti su Facebook e deliziarvi con Il Volo. Problemi vostri.
Patty Pravo e Briga (6): La bellezza di Patty Pravo è eterea, leggendaria. Cominciamo a pensare che ci faccia molto più di quanto ci sia, e questo non fa che aggiungere punti stima. Briga uscendo di scena saluta “Ciao Sanremo!”, ciao Briga! Vediamoci presto eh, mi raccomando! Non facciamo che ci perdiamo!
Arisa (6,5): Non fatevi fregare, il pezzo di Arisa è complicato assai e lei lo canta da Dio. In altri tempi, in altri festival, avrebbe vinto certamente. Stavolta, speriamo di no. Non perché il brano sia brutto o lei ci stia antipatica, anzi, tutt’altro, ma perché è giusto che questo festival, proprio questo festival, lanci un messaggio chiaro al grande pubblico. Arisa deve immolarsi come una pedina a scacchi che è necessario farci mangiare per vincere. Ci spiace, senza rancore.
Irama (2): La domanda è: ma mentre il padre violento della ragazza dal cuore di latta menava forte, lei era vestita come Irama? No perché altrimenti la storia cambia da così a così. “Io ci sarò comunque vada”…non ha sofferto abbastanza sta povera ragazza?
Achille Lauro (6,5): Anche se il pezzo assume significato di esistere esclusivamente durante il festival di Sanremo, in mezzo a noie mortali come Renga ed Einar, e chiusa la diretta televisiva, quando torneremo alla vita normale, ad ascoltare musica vera, ci faremo aiutare da un elettroshock per dimenticarcene il prima possibile; c’è da dire che il suo evidente divertirsi sul palco è coinvolgente, la sua presenza a Sanremo è una provocazione, potrebbe pure stare zitto. Crea sensazioni contrastanti, bisogna ammetterlo, da un punto di vista gli vorremmo provare a cancellare i tatuaggi dalla faccia con la carta vetrata, dall’altro, effettivamente, rappresenta nel mare infinito di questa lungaggine di festival baglioniano, un attimo di respiro. Va bene così.
Nino D’Angelo e Livio Cori (5,5): Al primo ascolto siamo rimasti affascinati dall’esperimento, al secondo abbiamo notato che qualcosa non andava, al terzo ci siamo già rotti le scatole. Baglioni, probabilmente ha voluto mettere accanto a Cori, voce, ricordiamolo, di Liberato, una figura rassicurante come Nino D’Angelo. Poteva rischiare di più se proprio la canzone lo aveva convinto.
Federica Carta e Shade (1): “Sono qua un’altra volta, ci finisco sempre senza farlo apposta” canta Federica Carta, quindi ci spiegate con chi dobbiamo prendercela per questa inutile perdita di tempo? Shade è una versione mezza rappata di Kekko dei Modà, come se il mondo non avesse già sofferto abbastanza a causa di Kekko dei Modà. Finita l’esibizione ci viene voglia di urlare “La musica è una cosa seria, dannazione!”, e già ribolliamo di rabbia pensando a quanto stia volando in visualizzazioni e stream questa inutilità di pezzo. Se scriviamo con tanta rabbia è perché certi progetti musicali sono diseducativi nella loro semplicità, fanno intendere che chiunque possa fare successo, che è un boccone ben più appetitoso di una carriera. Due concetti decisamente diversi. Capite cosa intendiamo?
Simone Cristicchi (6): Cristicchi ci fa sentire come bulli che picchiano un cucciolo di labrador sordo e cieco. Il pezzo dice cose belle, sensate, ok…ma ci fa scivolare lo stomaco sotto la suola delle scarpe.
Enrico Nigiotti (5): ennesimo cantante che piange a fine esibizione, colpa di un tecnico di palco che ha sparso la voce della vittoria finale de’ Il Volo. Burlone. Quello che c’è di buono nella canzone di Nigiotti è che pur essendo non centratissima non irrita. E già è tanto.
Boomdabash (4,5): Questa gioia alle 00:25 dopo ore di Sanremo stimola irrefrenabili istinti omicida. Poi, non so voi, ma io Naingollan lo preferivo a centrocampo.
Einar (1): L’unica magia provocata da Einar e Irama è quella di salire due volte sul palco a cantare senza che nessuno abbia detto mezza parola. Una sorta di The Prestige de’ noantri. Il pezzo è semplicemente imbarazzante, farebbe arrossire Hannibal Lecter.
Motta (7): Francesco Motta, lo abbiamo detto, è uno dei migliori giovani cantautori in rampa di lancio. Ti pone sempre davanti a un bivio: o accetti di volerti impegnare, sotto tutti i punti di vista, intimo, musicale, esattamente come fa lui dall’altra parte dello stereo, o puoi anche andare ad ascoltare musica buona come sottofondo per un viaggio in ascensore. Questo fanno gli artisti, si impongono, ti educano, non scendono a compromessi. Motta potrà non piacervi, come lo sciroppo quando c’hai la tosse, ma per guarire serve uno sciroppo, e il nostro è un paese malato. Non è più tempo di renderci le cose facili facili a tutti i costi.
Gli ospiti
Lo Stato Sociale e Renato Pozzetto (7,5): L’ospitata più azzeccata di tutto il festival decidono di porla fisicamente fuori dall’Ariston. A dimostrazione che le cose più interessanti il festival le tiene ancora fuori dalla porta.
Eros Ramazzotti (6): Ramazzotti non ci si fila di striscio, la sua dimensione ormai è decisamente più internazionale che italica. Infatti il suo tour tocca tutti gli angoli più remoti del pianeta. Per il duetto con Baglioni viene scelta Adesso tu, che dice “quanta gente giovane va via…”, e qui a cantare ci resta Irama. L’Ariston in piedi durante l’esibizione con Luis Fonsi, il pericoloso malvivente portoricano autore di Despacito, quel tormentone che speriamo venga restituito all’inferno. Il pezzo insieme a Ramazzotti è altrettanto spagnoleggiante, altrettanto brutto, altrettanto irritante.
Elisa (5): Torna dopo anni al festival Elisa con un vestito addosso che la fa sembrare una vaschetta gelato bigusto. Anche lei purtroppo rientra nell’elenco degli ospiti che non ha alcun senso considerare ospiti. È brava, canta bene. Ok. Ma non meglio di molte altre.
I conduttori
Claudio Baglioni (6,5): Non è un conduttore e infatti non sa condurre. È un grande artista che, come i grandi artisti, ha un ego gigantesco, infatti a tratti ci ha dato l’impressione di avere fastidio a vedere altre persone suonare sul suo stesso palco. Con le sue innumerevoli, decisamente troppe, autocelebrazioni ha pisciato in ogni angolo dell’Ariston. Suo il merito di aver rimesso davvero la musica al centro del festival, e per musica intendiamo quella vera, non solo quella incipriata dalla tv. Bravo. Non sarebbe tragico un suo ritorno, magari solo come direttore artistico, magari rivedendo il lavoro di questi due anni con obiettività.
Claudio Bisio (6): Baglioni decide di mettersi accanto per questo festival due cavalli di razza, due professionisti preparatissimi, due attori, si, ma che sono anche dei comici. Sulla carta una scelta ineccepibile, come essere presidente e allenatore di una squadra di calcio e comprare Messi e Cristiano Ronaldo. Se uno se lo può permettere la scelta è la migliore possibile, ma non sta scritto da nessuna parte che i due campioni riescano a trovarsi in campo con facilità. Ecco, Bisio e la Raffaele sono due campioni ma hanno passato questo festival nella ricerca spasmodica di un’intesa che, specie se si parla di comicità, è assai complessa da trovare. E in particolare Claudio pare averci provato in tutti i modi, invocando perfino più libertà dalle catene di un copione scritto veramente molto molto male, un po’ di sana improvvisazione vecchia maniera. Ma non c’è stato niente da fare. Ciò non sfiora minimamente la stima per un professionista vero, che infatti, esattamente come la Raffaele, quando si prende il suo momento personale, vedi il monologo sul rapporto padri/figli, funziona maledettamente bene. Peccato.
Virginia Raffaele (7): La Raffaele tiene l’esibizione col botto per il finale e, naturalmente, prevede imitazioni, il suo cavallo di battaglia. Un medley esilarante, un numero finalmente nuovo. Esattamente come Bisio trova nei momenti da sola sul palco quelli migliori. Difficilmente il festival poteva trovare una presenza femminile più adatta al ruolo, avendo nelle sue corde una versatilità quasi unica in Italia. I duetti con Patty Pravo resteranno di gran lunga i migliori momenti di varietà del festival, capaci forse di far dimenticare anche tutti gli altri, e sono la maggioranza, che sono andati proprio male.