Avete visto “La Grande Bellezza”?
Risposta A: Sì, due ore e mezza di tortura. Volevo spararmi alle caviglie prima dell’intervallo e ho controllato i risultati delle partite del campionato senegalese per sopravvivere al secondo, ma solo perché non avevo io la macchina e mi serviva un passaggio perché pioveva. E comunque una pesantezza indicibile, andarmene non sarebbe stato abbastanza, volevo mettere in fila Sorrentino, Servillo, Verdone e tutti i fenomeni da baraccone del film e sparargli contemporaneamente per non sprecare pallottole per loro.
Risposta B: Sì e me ne sono innamorato. Due ore e mezza di gioia per gli occhi, ne avrei voluto ancora. Servillo è il più grande attore della storia e Sorrentino senza alcun dubbio il nuovo Fellini. Anzi, Fellini reincarnato con più mezzi per i migliori piani sequenza dai tempi di “Professione reporter”. Altro che Cannes, questo film deve vincere un Oscar, anzi, il premio Oscar per la miglior regia dall’anno prossimo dovrebbe chiamarsi il “Sorrentino”. Vorrei votarlo alle amministrative questo finesettimana, si può?
Queste sono le risposte, ironicamente esasperate, ricevute nelle scorse settimane da chiunque abbia posto la domanda ad amici/conoscenti/parenti/compagni di coda alle poste o alla fermata del tram. Se non altro non si può dire che lo spettatore medio sia uscito dalla sala indifferente o poco interessato al valutare l’opera appena vista.
Perché Sorrentino è così, da sempre e più che mai. Lo ami o lo odi, ma non puoi e non devi evitare di vederlo.
Uscito nelle sale il 21 Maggio, mentre era in concorso, unico film italiano, al Festival di Cannes “La grande bellezza” è uno di quegli spietati ritratti della società contemporanea talmente crudeli nella loro verità da poter essere solo trovati geniali e meravigliosi o disgustosi e irritanti.
La pellicola è girata interamente a Roma, celebrata nella sua bellezza senza tempo esattamente con la stessa magnificenza e minuzia con cui viene descritto il profondo squallore di una fetta della sua popolazione e sfrutta la sua immensa scenografia grazie all’occhio innamorato del regista, come di chiunque, non nato nella capitale, si lasci esaltare, in piena sindrome dell’eterno turista e sconvolgere dalla suo maestoso splendore fino ad annichilirsi, perdendosi in una bellezza che il cuore umano non può reggere.
La città eterna è lo sfondo ideale per questi 142 minuti di viaggio alla ricerca per niente scontata del senso della vita dissoluta e ripetitiva della presunta élite degli intellettuali, artisti e decadenti personaggi che popolano le notti di Roma, afflitti dal demone del nulla.
A fare da guida al pubblico è Jep Gambardella, autore di un libro di successo, scritto in gioventù e mai dimenticato, diventato una persecuzione che lo ossessiona, come l’idea di scrivere ancora e l’incapacità di farlo davvero.
Jep, moderno e devastato Virgilio, guida tra i dannati e dannato lui stesso, è magistralmente interpretato da Toni Servillo, che da un nuovo significato all’espressione “attore feticcio”, mostrandosi a mio parere ben più intenso, versatile e multiforme di Depp, conclamata anima gemella di Burton.
Tutti gli altri personaggi, pittoreschi e più o meno tratteggiati esistono solo in funzione del percorso evolutivo del protagonista, sono meteore che ripetutamente travolgono come schegge il suo girovagare nelle folli notti di un gruppo di amici apparenti, lasciando dei segni su di lui e influenzando la storia, ognuno a modo suo e nella sua misura, per poi scomparire nel nulla, insoluti, irrisolti e pensierosi come erano apparsi, senza l’ombra di una redenzione forzata, di un finale o di una caratterizzazione approfondita, che intaccherebbe la messa a fuoco dello spettatore su Servillo. Essi affollano il montaggio, vivacizzandolo, come fossero panoramiche che intervallano e influenzano dei primi piani narrativi decisi ed efficaci.
I loro incontri e rapporti con Gambardella sono sostanzialmente l’unico motivo per cui esistono, per questo esplorarli interessa al regista molto relativamente e non c’è tempo né voglia di capire veramente (con due eccezioni, i personaggi interpretati da Verdone e dalla Ferilli, un po’ più approfonditi) chi siano, da dove vengano e dove vadano. Quello che conta in assoluto è il modo in cui si relazionano al protagonista, come nel più classico dei romanzi, quando le loro strade si incrociano.
L’intera pellicola è un crocevia di solitudini, illusioni, vuoti dell’anima.
Rituali immobili, privi di senso, l’esaltazione del nulla come sfarzosa concretezza in opposizione ad una realtà incomprensibile, fatta di fallimenti, noia e notti che esistono solo per sfuggire alla constatazione della propria disperazione.
Uno spregiudicato trionfo del patetico, orchestrato dal personaggio di Servillo, sempre in bilico tra il cinismo, la tristezza e una sagace e folgorante comicità, che però applica prevalentemente all’analisi e al giudizio dell’ambiente che lo circonda, esprimendo giudizi glaciali e implacabili sull’essenza della Roma di cui è volente e nolente parte integrante, le maschere cave che il viaggio filmico esplora, che esse siano spogliarelliste, amici, artisti ignoranti, esorcisti, soubrette in decadenza, aspiranti drammaturghi o suore.
Perché non fermandosi alla superficie sa cogliere che l’essenza di tutti i personaggi è la stessa, sotto strati di opere umanitarie, droga, segreti, paillettes e relazioni palesemente sbagliate: la solitudine, le illusioni, la paura, la fatica di vivere appieno, i sogni perduti, le ombre dei fallimenti.
Una sorta di nucleo ancestrale dell’umanità, che lontano dalla luce è più facile nascondere.
Una fusione di sentimenti delicatissimi e allo stesso tempo mortali, che scaturiscono da una profondissima sensibilità e generano un innato desiderio di distruggere e distruggersi, probabilmente nel disperato tentativo di rinascere, senza il peso degli anni, delle delusioni e del disincanto accumulato in una vita con una profonda onestà.
In questo cammino, Sorrentino cattura il pubblico, che non può rimanere indifferente nemmeno all’inaspettato, che il regista regala sempre, alternando una fortissima ironia, dissacrante e tagliente, a delle considerazioni drammatiche ed emotivamente impegnative ad un ritmo imprevedibile, e citando apertamente gli exploit visivi di Fellini, alla cui “dolce vita” il film può sembrare addirittura un palese omaggio.
C’è da domandarsi in che misura i tagli al montaggio abbiano influito e condizionato l’intero film, considerato che si parla di circa un’ora in più di riprese, sacrificate probabilmente non soltanto in nome del mercato ma anche della circuitazione nei festival internazionali. Purtroppo, a chi lamenta un montaggio frenetico e la comparsa ingiustificata di personaggi che non sembrano nemmeno funzionali alla narrazione, almeno in questa edizione del film, non si potrà dare risposta, almeno fino alla distribuzione del dvd, sempre che venga inclusa una versione integrale del film. D’altro canto non posso non chiedermi quale sia il senso di una sceneggiatura che non possa fare a meno di un girato talmente imponente da dover essere per forza di cose massacrato al montaggio. Non solo perché mi sembra che ci sia tantissimo materiale già nella copia distribuita ai cinema, ma anche perché in termini economici significa un investimento dei produttori sensibilmente maggiore, per non parlare dei tempi di lavorazione.
In conclusione, non si può fare a meno di porsi delle domande sul film, come su tutta la produzione di Sorrentino, con i suoi protagonisti maschili deboli ma risoluti nell’evolversi, sui personaggi femminili che fanno sempre e solo da sfondo, sull’identità dei soggetti che riempiono lo schermo all’infuori del protagonista, sul montaggio estremamente vivace, dettato più dai pensieri e dallo stato emotivo di Gambardella che dagli eventi in successione cronologica, che culmina in un finale ciclico e lineare ma nello stesso tempo sbriciolato durante tutta la narrazione, la presenza di microstorie fortemente provocatorie e controverse, come quella della suora quasi santa.
Ma credo che il senso estetico e le visioni di Sorrentino vadano oltre i dubbi, peraltro a mio parere stimolanti nel confrontarsi e tentare di comprendere il non detto, applicandolo a se stessi, e che la grande bellezza stia anche solo in quei meravigliosi movimenti di macchina, che stupiscono da “Le conseguenze dell’amore” in poi, nelle inquadrature mozzafiato di Roma, nella pioggia di piani sequenza infiniti e commoventi, quasi impossibili da realizzare. E ancora nelle geometrie, particolarmente evidenti e nette già dai primissimi fotogrammi e negli incredibili equilibri cromatici, che sembrano frutto di singole pennellate sulla pellicola più che di regia e fotografia. I singolari costumi della Ferilli, per me segno palese della incompatibilità del suo personaggio con il mondo in cui entra, in punta di piedi, sono una scelta molto precisa oltre che fondamentalmente divertente. E nella mimica facciale di Servillo, che da nuovamente vita, corpo e credibilità a un personaggio complesso e conflittuale, con la classe che lo caratterizza anche solo nel differenziare la dizione nella parlata quotidiana di Jep e negli interventi in voice over dal narratore.
Meno protagonista del solito invece, a mio parere, la colonna sonora, che in film come “L’uomo in più” e “This must be the place” aveva un ruolo fondamentale, al pari del protagonista, ma comunque raffinata e molto netta nel raffigurare e connotare i diversi ambienti e contesti descritti dal film.
Tutto questo può non bastare, chiaramente, o non piacere, ma credo che un film che produce reazioni così controverse e di fondo passionali parli singolarmente ad ogni spettatore in modo diverso, quindi abbia bisogno e diritto di essere giudicato personalmente da chiunque ci si voglia avvicinare, senza l’influenza del parere altrui, che però in questo caso mi sembra ancora più prezioso per un confronto o dibattito successivo alla visione, particolareggiato e in qualche modo, anche sentimentale.
(Martina Morabito)