Di Clarissa Comunale – Vive da quasi 400 anni il mannaro sullo scoglio di Patti. Un’antica leggenda orale narra dello spirito di un saraceno trasmutato nelle membra di un lupo relegato ad un’eterna solitudine. È di nuovo il cunto il protagonista de Lo Scoglio del Mannaro di e con Simone Corso, con la collaborazione artistica di Adriana Mangano, penultimo appuntamento di ieri sera per Il Cortile Teatro Festival.
Un grand tour spinge lo scrittore inglese Edward Hutton nell’aprile del 1926 sui luoghi di Tindari, ammirando la magnificenza del teatro greco, “pieno di forza evocatrice”, fino allo scoglio di Patti, oggetto di racconti epici ed inverosimili, tradizioni orali che narravano le vicende del terribile lupo mannaro. In controtendenza agli scrittori “eccentrici” dell’epoca, come Oscar Wilde, Hutton tenta di riportare alla luce i fatti storici, che affondano le loro radici nell’antichità. Nessuna predilezione per il fantastico, né formazione, ma prontezza per l’improbabile, disincantato interesse per la bellezza della natura, meraviglia fanciullesca.
Era necessario sbarcare su quello scoglio per appurare il legame tra i doni che venivano inviati dalla popolazione locale tramite padre Domenico e la podestà.
Un tuffo in quel profondo mare svela una realtà paurosa e mitica: il mondo sottomarino ricco e variegato, coperto da un manto di muschio e ricci di mare si esaurisce in superficie con il suo crinale roccioso fino al di là di un avvallamento ove giace una baracca abitata. L’ululato che risuona per tutto lo scoglio è straziante e “carico di rabbia” proviene da un anziano, tale don Luca Visalli, un tempo spazzino che per “campare” si occupava di ripulire le strade fino all’avvento della spagnola che lo costrinse a “scomparire” a causa del ritrovamenti di pozzi avvelenati. Uno scoglio come un confino, una casa e una galera ove non esiste più alcuna speranza né una vera identità, uno scoglio ove gli altri “u mannaru”, cioè dove gli altri lo hanno mandato. Rimane lì attaccato al suo scoglio Visalli che non ritrova più nulla di ciò che era, ma si mischia alla bellezza della natura, “diversa e uguale”, che parla al plurale ed è onnicomprensiva, una natura che salva.
Risuonano, dunque, quei racconti antichi, in vernacolo, in cui bisognava ricostruire le mura di Patti dopo le guerriglie con i saraceni portati via a sassate. Resta un cadavere, vestito di rosso, straniero, disteso per terra, senza vita e senza nome. Resta un’anima che aleggia nell’aria fino a volare lontano su quello scoglio, dominato e benedetto dalla natura, custodito dagli occhi onnipotenti del sole e della luna, a incarnarsi nel corpo di un lupo mannaro in una “notte di luna china” (notte di luna piena).
Nei gesti e in un paio di piccoli occhiali vivono i personaggi del giovane Simone Corso, meritatamente applaudito per un lavoro in cui mito, realtà, letteratura si intrecciano e si mischiano sapientemente, immergendo completamente lo spettatore nel suo mare pieno di storia, con l’anelito di una “ridente speranza”.
Ultimo appuntamento lunedì 13, con la possibilità di usufruire della solita formula enogastronomica curata dal ristorante ‘A Cucchiara, Il Muro – cronachetta drammatronica di una civile apartheid, live & drama set di Turi Zinna, per una produzione Retablo, presso il Cortile Calapaj-d’Alcontres, strada San Giacomo 19.
Foto: Giuseppe Contarini