Nel dibattito sulla genesi e la natura del Manifesto di Ventotene, il commento di Alberto Stagno d’Alcontres ha suscitato una forte reazione da parte dello storico Antonio Matasso, il quale ha smontato punto per punto l’errata lettura che attribuisce al documento un’impronta comunista. Matasso ha evidenziato, con argomentazioni storicamente fondate, come gli autori del Manifesto fossero in realtà esponenti dell’antifascismo liberale e azionista, spesso in aperta opposizione al comunismo sovietico.
Ecco di seguito il documento integrale, attraverso il quale si conferma Matasso un punto di riferimento insindacabile in materia.

“Tra le tante
asinerie e cretinate scritte o dette a sproposito sul Manifesto di Ventotene, per di più senza uno straccio di senso della storia e della sua profondità, le scempiaggini contenute nel commento qui riportato battono ogni altra amenità. Non mi cimento in un giudizio volto a stabilire se esternazioni così sconnesse esprimano più idiozia o analfabetismo funzionale: come si fa però a reputare «figlio dell’internazionalismo comunista» un documento in cui confluiscono i pensieri di persone che, con gradi e modalità diverse, erano tutte anticomuniste e contrapposte alla visione pseudo-internazionalista dell’Unione Sovietica e dei partiti satelliti di Mosca? Ricordo che
Ernesto Rossi, il quale fu partigiano di “Giustizia e Libertà”, liberale, azionista e infine fondatore del Partito Radicale che sarà poi di
Marco Pannella, era un
allievo di Luigi Einaudi e di Gaetano Salvemini (non esattamente due bolscevichi) e che in una lettera indirizzata a quest’ultimo scrisse che il Partito Comunista Italiano rappresentava «un partito nazionalista straniero, inassimilabile nella democrazia dei nostri paesi», mutuando peraltro una descrizione riferita dal leader socialista francese
Léon Blum ai comunisti d’Oltralpe.
Eugenio Colorni poi, ebreo e socialista che aveva militato in “Giustizia e Libertà” e nel PSI su posizioni riformiste, era parimenti impegnato nella lotta anticomunista, subito dopo quella contro il fascismo: egli esecrò con toni aspri il burocratismo comunista, nonché la soppressione del dissenso in Spagna durante la guerra civile e la sudditanza a Mosca di chi si “riparava” sotto la falce e martello stellata. Fu ucciso dai fascisti ad appena 35 anni e non vide mai l’Italia democratica e antifascista né la parziale concretizzazione del sogno europeista di cui aveva contribuito a creare le premesse.
Quanto ad Altiero Spinelli, nel 1937 era stato espulso dal Partito Comunista per aver denunciato i crimini di Stalin e la dittatura sovietica, venendo pure ricoperto di insulti e calunnie di vario tipo dai suoi ex “compagni”; proprio poco dopo aver partecipato alla redazione del Manifesto di Ventotene, aderì al Partito d’Azione, per poi passare brevemente alla Concentrazione Democratica Repubblicana di
Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, allorché i due capi antifascisti fuoriuscirono dalle file azioniste. Con la nascita del centro-sinistra, divenne il principale consigliere del segretario socialista Pietro Nenni per quanto riguardava la politica estera e fu nominato commissario europeo dal 1970 al 1976, su indicazione del PSI allora guidato dal professor
Francesco De Martino, anch’egli proveniente dall’azionismo e a quel tempo vicepresidente del Consiglio. Chi ha scritto quel commento ignora un dato di fatto noto ai più avveduti, vale a dire che
Gaetano Martino si rifece apertamente alle idee di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Luigi Einaudi – nonché di
Mario Pannunzio, altro fondatore del Partito Radicale e iscritto al Movimento Federalista Europeo di Spinelli – quando promosse la Conferenza di Messina, con cui nel 1955 fu avviato nella nostra città il processo comunitario.
Dunque, il solo modo per spiegare un commento così superficiale da rasentare i confini dell’imbecillità in purezza, anche nel passaggio in cui vengono citati a capocchia altri grandi padri dell’Europa, quasi come se si trattasse di tatcheriani o meloniani ante litteram, è che il profilo che lo ha inserito sia stato hackerato o che vi sia qualcuno che ne ha creato uno appropriandosi del nome di un ex docente dell’Università di Palermo. Mi rifiuto di pensare ad altro e mi mantengo esente da ogni pregiudizio che possa portarmi a leggere in quel cognome un possibile collegamento tra i deliri reazionari trumputiniani attuali e l’antica compromissione col fascismo di alcuni membri del casato aristocratico messinese, il cui nome di famiglia viene ora esibito da quel profilo, che confido sia falso. Questa mia attitudine laica e incline al dubbio la mantenni anche quando un parente del suddetto accademico (che seguito a credere vittima di un furto d’identità digitale), attivo in altro settore, fu rinviato a giudizio poco meno di tre anni fa con l’accusa di aver schiavizzato, insultato e variamente angariato dei braccianti africani ingaggiati per raccogliere fragole e altri frutti di bosco nella sua azienda in Lombardia, costretti a lavorare in condizioni contrarie a ogni norma di legge e che calpestavano la dignità umana.
«Con i braccianti serve il metodo tribale… io per loro sono il maschio alfa», diceva costui. Anche in quel caso, sospesi il giudizio senza collegare ciò a inveterati costumi di nobili (ignobili) messinesi e del resto della Sicilia o del Sud Italia, abituati per secolare prassi ad assestare calci nel sedere agli sfruttati siciliani e meridionali che avevano la sventura di lavorare a giornata nelle loro terre. Così farò anche in questo caso, ribadendo però il mio disprezzo per questo ennesimo sciocchezzaio su Ventotene, senza esser condizionato da mie pregresse considerazioni sui danni che talune famiglie (sedicenti) principesche da Italietta hanno inferto al paesaggio sociale messinese, così come a quello della Sicilia e del Paese tutto. Un consiglio a chi si è appropriato di quel blasone, nel caso in cui il tutto sia derivato da semplice ebbrezza etilica, rivolto anche a chi gli sta vicino: che gli si levi il vino, o almeno che costui provveda (in modo autonomo oppure adeguatamente consigliato) a cambiare il nome del profilo fasullo nel più appropriato e goliardico “Sbronzo d’Alchermes”.