L’ analisi: estrema destra in Germania, le radici di un consenso

di Domenico Mazza* – “Alternative für Deutschland”, abbreviato in AfD, “Alternativa per la Germania”, ha stravinto le elezioni regionali in Turingia e Sassonia. Il partito, da tutti definito di estrema destra, nazionalista, xenofobo, razzista, omofobo, euroscettico, neonazi, ecc. ecc., risulta ormai il nemico numero uno dell’ordine europeista di Maastricht.
Le maggiori testate, i più severi opinionisti e i tanti analisti che sorreggono le piattaforme social, sono concordi nel circoscrivere il successo di consensi ai soli territori che furono dell’ex DDR, ovvero la famigerata Germania comunista dissoltasi nel lontano 1990.
Va comunque sottolineato che “i Lander in questione, prima ancora di essere comunisti, furono nazisti”.
Con tale affermazione cosa si intende? Il concetto secondo cui la cultura politico-democratica della Germania orientale risente, oggi più di ieri, di quasi sessant’anni di oppressione totalitaria (1934-1990); una “continuità” che è fatalmente determinante nei risultati elettorali dell’estrema destra tedesca e raccoglie i consensi di una “marmaglia neonazista”.
Come tutte le destre europee, quella tedesca punta al fattore identitario, cioè sul diritto degli europei alla conservazione e alla difesa della propria cultura a discapito del multiculturalismo. Si tratta di una dottrina che, sempre secondo gli analisti da copertina, è soltanto la “foglia di fico” di un piano eversivo che mira a distruggere la liberaldemocrazia e il pluralismo.
Nonostante la “foglia di fico”, emerge nel programma dell’estrema destra tedesca un dato storico fondamentale: i Lander (plurale di Land) in cui AfD ottiene più consensi rappresentano “il cuore della vecchia Germania” (la Turingia è il centro del Paese); è il cuore della Germania reale, quella degli Hohenstaufen, di Federico Barbarossa, della Riforma protestante, di Martin Lutero, dei principati tedeschi che sfidarono l’ordine imposto da Santa Romana Chiesa su tutta l’Europa occidentale: ieri la Chiesa di Roma, oggi, quale simbolo dell’oppressione, lo “Staat” come concepito dalla riunificazione tedesca voluta
da Kohl.
Andreotti diceva «Amo talmente la Germania che preferisco ce ne siano due», ma la verità è forse una: che la Germania è sempre stata nella sostanza qualcosa che prescinde dallo “Staatsgebiet”, cioè da un determinato territorio. Tutto ciò, se fosse immediatamente verificabile, porterebbe a consapevolezze ulteriori rispetto a quanto spiegato finora dal mainstream. Per esempio, il superamento dell’etichettatura “neonazi” in favore di un’analisi più complessa, meno dozzinale, che non si limiti a marchiare, poiché, come si è avuto modo di osservare in Usa, Francia e Italia, questi giudizi, nel lungo periodo, non fanno altro che favorire la popolarità di questi movimenti attraverso la realizzazione del cosiddetto “vittimismo populista”.

*Storico, Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Messina 

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