di Palmira Mancuso – Solo grazie. Solo grazie ho potuto dire uscendo dalla Multisala Iris dove con coraggio (vista la distribuzione non capillare a Messina e provincia) il buon Umberto Parlagreco continua a proiettare un film che è riuscito col linguaggio del cinema a raccontare quello che molti conoscono, ma in troppi non hanno il coraggio di vedere. Io, Capitano è la dimostrazione di come solo attraverso l’arte, in questo caso il cinema, si riesca a dire quello che nessun documentario, nessuna parola è in grado di raccontare. E la scelta di sentire la lingua madre dei protagonisti, di farci guardare il mondo attraverso i loro occhi, la loro cultura, è molto efficace per comprendere da spettatori anche questo ostacolo, questa incomprensione che crea distanza. Così bastano pochi minuti per capire che in questo film anche i sottotitoli sono inutili, così come nella vita reale.
La storia vera che ha ispirato Matteo Garrone, quella di Kouassi Pli Adama Mamadou, oggi attivista del Centro sociale ex Canapificio, e del Movimento migranti e rifugiati di Caserta, e che ha dato un importante contribuito alla sceneggiatura del film, è una storia che io stessa ho sentito e raccolto dalla viva voce di chi è sopravvissuto a questo viaggio. E quando il film è finito, ho rivissuto la stessa sensazione della prima volta che ho partecipato a bordo di Aquarius al soccorso in mare dei migranti, all’epoca in cui la traversata si faceva soprattutto su gommoni. La sensazione che si prova quando sai che la felicità di sentirsi salvi e la speranza di avercela fatta, si infrange sul molo di una politica sempre meno accogliente, sempre più incattivita. Una politica che negli ultimi dieci anni ha gestito milioni di euro non per rendere umani i soccorsi, per creare corridoi umanitari con i paesi sub sahariani, ma per pagare gli aguzzini libici e tunisini, alimentando un ricatto infinito sulla pelle, sui sogni di queste persone.
Matteo Garrone ci mostra quello che molti sanno: gli “scafisti” non esistono. Nessuno dei trafficanti rischierebbe di mettersi in viaggio sapendo (loro lo sanno) che è un azzardo, una roulette. Li mandano come carne da macello. Ma a noi italiani, nutriti a pane e paura, fa comodo trovare lo scafista. Io stessa, negli incontri a scuola che ho fatto in questi anni, ho cercato di spiegare che “lo scafista” che noi arrestiamo è in realtà il Capitano, quello che per necessità o intraprendenza, si presta alla guida di una barca. Perchè non ha nulla da perdere se non la sua stessa vita. Questo racconto l’ho ascoltato a bordo di una nave dell’ong Sos mediterranee nel 2017, quando mi resi conto che nessuna delle persone soccorse aveva mai visto il mare, che una volta intrapreso il viaggio non puoi più tornare indietro, che ti spiegavano che l’Italia era ad un giorno di navigazione, che scambiavano le luci delle piattaforme petrolifere per la terra. Tutto, tutto vero.
Come vera è quella sensazione che Garrone ha veicolato: chi incontra i migranti e ascolta il loro racconto sa che non sono incattiviti dalla violenza e dalle torture che hanno subito, nei loro occhi nonostante tutto resta quel senso di gratitudine alla vita, che noi occidentali stiamo perdendo.
Quando le luci in sala si sono accese, e la bellissima colonna sonora continuava nello scorrere dei titoli, non ho versato una lacrima. Mi sono sentita arrabbiata, impotente, ho capito quanto la società italiana soprattutto, sia stata avvelenata dalla politica d’odio della destra che ora ci governa, che ha reso il nostro Paese uguale alla Libia: “Qui siamo in Libia, con i soldi entrate sennò finite in prigione”. 4938 euro il prezzo della nostra vergogna.
Spero vivamente che questo film venga visto da quanta più gente possibile. Lo ritengo un dovere civico non chiudere gli occhi. Senza paura di guardare quelli del Capitano, scorgerete la speranza che noi abbiamo perso. Quella che ci fa credere che se nostro figlio vuole andare a studiare in Inghilterra è intraprendente, un senegalese che vuole migrare per migliorare la propria vita deve essere costretto a torture di ogni genere, e se magari riesce a sopravvivere alla nostra indifferenza e alla nostra politica di accoglienza, deve pagarci per attendere la valutazione della propria richiesta di asilo in libertà.
Ecco cosa in realtà, in maniera personalissima e distopica, mi ha ispirato il film di Garrone: ho pensato a Giorgia Meloni, Matteo Salvini (gli altri sono solo servi sciocchi) come in una delle scene più iconiche di Arancia Meccanica, costretti a vedere il film con gli occhi tenuti aperti da morsetti.
Saremo agli Oscar, e saremo ancora italiani orgogliosi. Perchè in Italia esistono ancora persone con la sensibilità di Matteo Garrone, che in questo momento rappresenta tutti quelli che come me, credono che sia quanto mai necessario scegliere la parte giusta della storia. Che non è mai quella dei campi di concentramento.