Roberto Vannacci e la notte dei Generali

di Domenico Mazza – È vero, la nostra Costituzione sancisce la libertà di opinione, di esprimere il proprio pensiero, di diffondere le proprie idee. È altrettanto vero che Essa sancisce anche dei limiti. Molti politici, compreso il ministro della Difesa Crosetto, hanno opposto questi limiti rispetto al libro autoprodotto dal generale Roberto Vannacci, quasi a mo’ di censura. Tuttavia al generale, come a qualsiasi altro cittadino, va garantito questo diritto sacrosanto di esprimersi, e a noi (pochi o tanti) va garantita in Democrazia la libertà di poter criticare l’ultimo esponente di una classe burocratico-militare che negli ultimi 150 anni ha spesso determinato le principali sorti del popolo italiano.

La vicenda ormai la conoscono tutti ed è destinata a diventare uno dei casi politici più discussi di questo autunno. Vannacci, 55 anni, generale di divisione, è sicuramente uno dei più importanti alti ufficiali italiani, con un curriculum che farebbe impallidire persino il primo tra gli accademici italiani: tre lauree, due master e un libro destinato a diventare un best seller: “Il Mondo al Contrario”. Ciò nonostante, questa vicenda non va discussa soltanto nei termini costituzionali, politici e giornalistici che animano le tribune in questi giorni. Va giocoforza ricostruito un contesto storico che, come vedremo, abbraccia almeno l’ultimo secolo della storia del nostro difficile Paese.

Il comportamento di Vannacci va analizzato anzitutto sezionando la classe a cui appartiene, quella degli alti comandi militari italiani, che da sempre, fin dalla crisi politica-sociale di fine Ottocento, hanno mantenuto e preteso un’agibilità pubblica, istituzionale e amministrativa che appare tutt’oggi di difficile trattazione. Si pensi alla violenta repressione del generale Bava Beccaris a Milano nel 1898 o il tentato colpo di mano del generale Pelloux, primo ministro di Umberto I in un’Italia che ormai si apprestava a mandare in soffitta le antiquate imitazioni prussiane postunitarie per fare spazio alla moltitudine popolare e sociale che entrava nella storia d’Italia (“la grande proletaria s’è mossa” avrebbe detto qualche anno dopo Pascoli riferendosi alla conquista delle terre libiche).

E si giunge all’inutile strage, la Guerra del 1915-1918. E qui avviene il paradosso: il generale Luigi Cadorna non può essere sottoposto a critiche severe e feroci (e quindi diffamato) nonostante sia morto da quasi cento anni e la sua figura sia stata già approfonditamente storicizzata. La vicenda è del 2022 e riporto uno stralcio del Corriere della Sera:

Padova, diede dell’assassino a Cadorna: deve risarcire il nipote

Un venetista condannato per diffamazione: 10mila euro al discendente del maresciallo

E continua il giornalista sul Corriere: “insultare il maresciallo Luigi Cadorna, dandogli dell’assassino o del criminale di guerra, significa diffamarlo. E per questo il tribunale di Padova ha condannato il venetista Michele Favero a risarcire con 10mila euro il nipote del militare, ordinandogli anche di cancellare immediatamente tutti i commenti offensivi pubblicati sui social. Lo scontro legale si trascinava da un anno. Da una parte la «libertà di critica» rivendicata dal segretario di Indipendenza Veneta, attivista politico e più volte candidato in consiglio regionale. Dall’altra, l’onore del «generalissimo» che diresse le operazioni del Regio Esercito nella Prima Guerra Mondiale fino alla disfatta di Caporetto del 24 maggio 1915. Stando alle accuse, tra il 5 novembre del 2015 e il 24 agosto del 2021, in decine di occasioni Favero avrebbe tirato in ballo Cadorna nei suoi commenti su Facebook, definendolo «assassino», un «verme» che «misurava le vite umane con le pallottole», che «dovrebbe essere stato giudicato come criminale di guerra».

Come è possibile che la libertà di critica e di pensiero nei confronti di uno dei più controversi generali della storia d’Italia soccomba di fronte alle pretese di un discendente? Alla luce di ciò Cadorna rimane, nonostante la morte nel 1928, il più potente generale italiano: guai a criticarlo, ha fatto quel che doveva fare!

E Armando Diaz, colui che lo sostituì nel 1917? Riposa in pace nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Per lui, forse il generale più amato della storia del nostro Paese, il napoletano sorridente, meglio non concedergli troppo spazio, potrebbe approfittarne.

A Cadorna e Diaz, morti tutto sommato lontano dai riflettori, si sostituì un nuovo ceto militare, probabilmente quello più opinabile, discusso e problematico di tutta la storia del nostro Paese. In questa sede menzioniamo i generali che favorirono l’ascesa (e la caduta) di Mussolini, del fascismo e la contestuale svolta totalitaria del regime a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Si parla in particolare di Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della Marcia su Roma, di Rodolfo Graziani, uno dei più spietati generali della storia d’Italia, Mario Roatta, il terribile esecutore della “Circolare3c” che ordinava il “testa per dente” durante l’occupazione italiana della Jugoslavia, e ovviamente il maresciallo Pietro Badoglio, figura sulla quale dopo il 1945 è calato il sipario nonostante la condotta spietata che ebbe con lo stesso Graziani durante la Guerra in Etiopia nel 1936.

Tutti e quattro non hanno lasciato un buon ricordo tra gli italiani nonostante i vari tentativi di “sdoganamento” a proposito della figura di Rodolfo Graziani ad opera di uno sparuto gruppo di nostalgici della provincia romana, i quali avevano inizialmente subito una condanna a 8 mesi per apologia di fascismo. Secondo l’accusa, il sindaco di Affile, in provincia di Roma, aveva permesso insieme a due assessori la costruzione di un memoriale dedicato a Graziani (2013). Tuttavia, come riporta il Sole 24 Ore il 26 marzo 2021, le condanne si sono poi trasformate in assoluzioni: “dedicare un sacrario al generale-gerarca Rodolfo Graziani non basta per far scattare il reato di apologia del fascismo. La semplice commemorazione è, infatti, insufficiente per ipotizzare il rischio di ricostituzione del partito, se a questa non si unisce l’esaltazione del personaggio chiave del ventennio. La Cassazione (sentenza 11576) ha depositato le motivazioni con le quali ha annullato con rinvio – il 25 settembre scorso – le condanne disposte, sia in primo grado sia in appello, nei confronti de sindaco di Affile e di due assessori per apologia di fascismo. Nel mirino dei giudici erano finiti sia il memoriale sia il raduno, in occasione dell’inaugurazione, con deposizione di corona, messa e buffet. Ad avviso dei giudici di merito entrambe le iniziative ricadevano nel raggio d’azione del reato contestato”. Come è stato per Cadorna, è la magistratura a intervenire sull’agibilità di Graziani a distanza di molti anni dalla sua morte: il generale di Mussolini può essere esaltato se non ci sono pericoli di ricostituzione del PNF.

Nel dopoguerra le figure degli alti comandi si sbiadiscono. Agli importanti marescialli delle vittorie e delle cadute degli anni precedenti si sostituiscono gli esponenti di un ceto burocratizzato, sottoposto a un vigile controllo di ministri e capi partito. Tra questi nuovi generali emerse, negli anni Sessanta, la figura di Giovanni De Lorenzo, direttore del SIFAR, i servizi segreti militari, e fautore di un gigantesco dossieraggio ammontante a 157 mila fascicoli riguardanti esponenti di tutte le istituzioni e gruppi sociali. Inoltre, De Lorenzo fu accusato di tramare contro le forze democratiche della Nazione: il Piano Solo.

Nel 1967 il giornale l’Espresso uscì con il titolo “1964 Segni e de Lorenzo tentarono il colpo di stato”. La stampa, in particolare i giornalisti Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari, sostenne che Segni e de Lorenzo fecero pressione sul Partito Socialista, il quale rinunciò alle riforme ed accettò di formare un secondo governo Moro perché preoccupato dell’attuazione di tale piano. La risonanza mediatica portò ad un grande dibattito in Parlamento, dove si decise di istituire un’apposita commissione parlamentare: l’inchiesta, presieduta da Giuseppe Alessi, escluse però ogni tesi di tentato colpo di Stato. A confermare l’infondatezza del golpe ci ha pensato recentemente Mario Segni, autore de “l colpo di Stato del 1964” (Rubbettino, 2021). De Lorenzo fu poi eletto alla Camera tra le fila dei monarchici per poi passare al MSI nel 1972.

Altro generale controverso, uno dei successori di De Lorenzo ai servizi segreti militari, fu Vito Miceli. Fu arrestato nel 1974 mentre era al vertice del Servizi segreti militari (nominato nel 1970), con l’accusa di cospirazione contro lo Stato, nell’ambito inchiesta sulla Rosa dei venti, un gruppo clandestino di cui facevano parte elementi dei servizi segreti dei quali è stato supposto un coinvolgimento in attentati, stragi e, per favoreggiamento, nel tentato Golpe Borghese del dicembre 1970, ma nel 1978 fu assolto con formula piena. L’assoluzione fu confermata in appello nel 1984 e in Cassazione l’anno seguente. Secondo un articolo del New York Times, nel 1972 Miceli avrebbe ricevuto 800.000 dollari dall’ambasciata americana per operazioni sotto copertura. Anche per Miceli si aprirono le porte di Montecitorio: nel 1976 fu eletto deputato tra le fila del MSI.

Accanto a questi nomi vi è quello di un uomo oggi simbolo di coraggio, un eroe al servizio della Nazione: Carlo Alberto Dalla Chiesa. Negli anni che videro De Lorenzo e Miceli protagonisti (o oggetto) di trame e scandali, Dalla Chiesa si distinse per la lotta al terrorismo. Protagonista della lotta contro le Brigate Rosse; su sua proposta venne creato il “Nucleo Speciale Antiterrorismo” attivo tra il 1974 e il 1976. Promosso generale di divisione, fu nominato nel 1978 coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano, competente per tutto il nord Italia; tra il 1981 e il 1982 fu vicecomandante generale dell’Arma. Nel 1982 venne nominato anche prefetto di Palermo con l’incarico di contrastare Cosa nostra così come aveva fatto nella lotta al terrorismo. Nel capoluogo siciliano fu ucciso pochi mesi dopo il suo insediamento, nella strage di via Carini in cui perirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Tuttavia lo stesso Dalla Chiesa non fu estraneo ad aspetti controversi che evitiamo in questa sede di elencare o esporre per via della loro complessità. Meritevole di menzione è comunque la domanda d’iscrizione che egli presentò alla Loggia P2 nell’autunno del 1976, in un momento di particolare isolamento all’interno del corpo di appartenenza, su sollecitazione del gen. Franco Picchiotti, vice comandante dell’Arma. Da parte sua Dalla Chiesa non avrebbe considerato un atto grave l’affiliazione alla P2, in quanto ritenuta composta da «uomini per bene, servitori dello Stato», tant’è vero che vi aveva aderito anche il fratello Romolo dalla Chiesa, altro generale dell’Arma. Il 12 maggio 1981, di fronte ai magistrati milanesi Giuliano Turone, Gherardo Colombo e Guido Viola, il generale motivò la sua richiesta di iscrizione come «mezzo con cui chiarire» a sé «stesso e conoscere chi […] fosse nell’ambito della massoneria e in particolare nella loggia P2».

Con l’omicidio Dalla Chiesa e la conclusione dei processi contro i golpisti degli anni Settanta, l’era di questi alti graduati divenuti apparato della burocrazia statale sembrò volgere al tramonto. La lotta alla mafia stragista portò sul campo nuovi ufficiali e la fiducia nei confronti delle forze dell’ordine e delle forze di polizia sembrò trovare il favore popolare tra una popolazione dopo le oscure vicende del dopoguerra. La terribile morte di Dalla Chiesa e di sua moglie aveva generato una commozione diffusa tra gli italiani, adesso anche loro pretendevano giustizia per i servitori dello Stato ammazzati.

L’eredità morale e culturale di Dalla Chiesa passò quindi ad una nuova generazione. Gli anni più recenti hanno visto numerosi generali mettersi al servizio della Nazione negli ambiti più delicati, come la salute e l’ambiente. Nel 2018 fu nominato, su proposta diretta di Luigi Di Maio, ministro dell’ambiente il generale Sergio Costa, già comandante regionale della Campania del Corpo forestale dello Stato, con la qualifica di Dirigente superiore. Dal 1º gennaio 2017, con il trasferimento del personale dal Corpo forestale all’Arma dei Carabinieri, assume il grado di Generale di brigata dei Carabinieri Forestali, di cui assume il comando della Regione Campania.

Tuttavia, a fare scalpore (negativamente) poco più di un anno dopo, in piena pandemia Covid, è l’affaire Cotticelli.

Saverio Cotticelli, come scrive Il Sole 24 ore, “Campano, originario di Castellammare di Stabia, 69 anni, generale di corpo d’armata dei Carabinieri in pensione, è arrivato in Calabria agli inizi di gennaio 2019. È stato nominato dal Conte uno il 7 dicembre 2018, ad opera dell’allora ministro dell’Economia Tria, di concerto con la ministra della Salute Grillo e sentita la ministra degli Affari Regionali Stefani. La nomina è stata confermata da Conte due il 19 luglio 2019. Conticelli ha alle spalle una lunga carriera nell’Arma, che lo ha visto ricoprire anche incarichi di rilievo: comandante Carabinieri della Regione Piemonte e Valle d’Aosta, è stato alla guida dei N.A.S. (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma dei Carabinieri, posti alle dipendenze funzionali del Ministero della salute), comandante della regione Carabinieri Lazio”. Ma cosa accadde? Pochi oggi lo ricordano. Come diceva Giulio Andreotti, meglio non fare tanto scalpore, gli italiani dimenticano in fretta. Walter Molino, giornalista di Titolo V, trasmissione RAI, documenta la situazione dei reparti coronavirus negli ospedali calabresi e intervista Saverio Cotticelli, commissario della Sanità in Calabria, sulle responsabilità di attuazione del piano Covid. Cotticelli, nel rispondere alle domande, appariva in imbarazzo sulla materia, sostenendo di non essere lui l’incaricato di redigere il piano anti Covid, salvo poi scoprire da una comunicazione del ministero di essere proprio lui quello che doveva preparare il piano: «Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo, ora mi cacciano». (https://www.raiplay.it/video/2020/11/Calabria-zona-rossa—Titolo-Quinto-ad6e7cec-d5d9-47cb-ad70-599bdc7d62d6.html A QUESTO LINK POTETE RIVEDERE LA SURREALE INTERVISTA).

Intervistato in seguito da Massimo Giletti, Cotticelli dichiarò: “Non so se mi hanno drogato…”.

E concludiamo con il generale Francesco Paolo Figliuolo, probabilmente l’alto graduato con più responsabilità nella storia della Repubblica e il più noto all’opinione pubblica italiana. Commissario all’emergenza Covid dal 2021 al 2022 e attuale commissario straordinario per la ricostruzione delle zone alluvionate del Centro Italia, Figliuolo diversamente da molti dei suoi colleghi è abile a muoversi tra le diverse sponde della politica italiana: non una parola di più e non una parola di meno, apparendo quindi figura bipartisan.

Non sappiamo se il generale Figliuolo si trova altresì d’accordo sulle tesi, o alcune di esse, del collega Vannacci ma sa bene che le sue responsabilità e il suo ruolo lo obbligano ad agire diversamente. Forse lo stesso Vannacci avrebbe dovuto fare come Figliuolo e tenere per sé determinate esternazioni. Ma non è stato così e non sarà così. Forza Nuova, il micropartito di estrema destra di Roberto Fiore, ha offerto all’alto graduato scrittore una candidatura al Senato nel collegio che fu di Berlusconi. Non sappiamo se il generale “Shock!” accetterà tale proposta ma a ben guardare le precedenti storie una certezza appare sempre più granitica: il dado è tratto e di Vannacci se ne riparlerà per molto molto tempo.

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