di Marco Perduca* – A parte la battuta che gira nei corridoi della Corte penale internazionale che “quest’anno Putin non potrà passare le vacanze nelle ville di Berlusconi in Sardegna”, dal 17 marzo il Presidente Russo si trova nella condizione per cui 123 Stati membri dell’Onu hanno l’obbligo di arrestarlo nel caso in cui dovesse recarvi.
Allo stesso tempo, è ragionevole ipotizzare che altri stati che non hanno ratificato lo Statuto di Roma, come per esempio gli USA, nel caso in cui dovesse farvi visita sicuramente, c0-opererebbero con la Corte consegnando Putin – o la Commissaria per i diritti dei bambini russi – al Procuratore Karim A. A. Khan.
Eppure, malgrado tutto e un po’ dappertutto, si legge che il mandato d’arresto è “simbolico” o che comunque non potrà essere eseguito perché non esiste una polizia internazionale, nessuno potrà mai mandare delle truppe speciali a Mosca per arrestare Putin, 70 Stati non riconoscono la competenza della Corte eccetera, eccetera, eccetera. Tutto già sentito ai tempi di Milosevic e, come spesso accade, tutto andato contrariamente alle previsioni conservatrici di questi esperti.
Quando una trentina di anni fa iniziarono i negoziati sulle prime bozze di quello che poi sarebbe diventato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, una buona parte dell’accademia parruccona spiegava a reti unificate che “il diritto internazionale non esiste”. Quella “corrente di pensiero”, con rispetto parlando, oggi risorge evidenziando la “simbolicità” dell’atto che, oltre a essere inutile, si porta dietro il problema che incriminare i massimi livelli di uno Stato in guerra cancella le possibilità di dialogo tra i belligeranti e quindi “allontana la pace”. Poco importa ricordare che non c’era alcun dialogo in corso mentre permane l’occupazione militare di intere regioni di uno stato sovrano a seguito di un’aggressione immotivata di un paese vicino che ha provocato decine centinaia di migliaia di morti, violenze, distruzioni eccetera, eccetera, eccetera.
Lunga sarebbe la lista dei detrattori dell’operato della Corte penale internazionale, e in effetti problemi di durata dei procedimenti, privilegio di alcuni contesti (africani) rispetto ad altri e qualche lotta intestina ci sono stati – e nessuno lì ha mai nascosti – ma è indubbio che là dove si sono aperte indagini, o si è spiccato un mandato di cattura o si sono aperti processi che si sono conclusi (spesso) con verdetti negativi per i coinvolti, la “realtà sul campo” è cambiata radicalmente.
Lo slogan “non c’è pace senza giustizia” (sputtanato da un procuratore belga nei mesi scorsi), oltre che essere un’associazione che per anni ha concentrato il proprio lavoro proprio a favore della creazione prima e del rafforzamento poi della giurisdizione penale internazionale, è una visione degli affari internazionali che persegue non solo scenari ex post, cioè all’indomani della fine di un conflitto, in cui si ritiene che senza l’individuazione dei maggiori responsabili dei crimini non ci potrà essere pace sostenibile e duratura, ma anche in itinere, cioè se la “comunità internazionale” (altro concetto spesso mistificato) si muove tempestivamente, o senza troppi ritardi, per affermare i principi fondativi dell’Organizzazione delle Nazioni unite, cioè il perseguimento della pace e sicurezza internazionale tramite il rispetto dei diritti umani (senza escludere l’uso della forza), le dinamiche delle guerre e le loro ramificazioni internazionali si modificano.
Il primo cambio di contesto qui è che le relazioni Russia-Cina, già piuttosto problematiche in genere per la natura e obiettivi dell’eterna amicizia tra i due Paesi, adesso vedono la Cina, sempre molto cauta a criticare apertamente l’operato delle Nazioni unite e delle istituzioni satellite (come in parte è la Corte), intenta a promuovere un avvicinamento tra un imputato dalla giustizia penale internazionale e uno stato aggredito. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo nella buona fede, né nell’efficacia, del ruolo di paciere di un regime che viola da sempre i diritti umani a casa propria ma adesso i cattivi pensieri liberal-democratici sono rafforzati da un mandato d’arresto internazionale recapitato alle cancellerie di tutti gli Stati membri delle Nazioni unite.
Cosa potrà mai portare a Mosca Xi Jinping? Una conferma di amicizia eterna (anche se era già eterna)? Armi? Tecnologia? Acquisti di gas, petrolio, uranio? O magari la richiesta di un dibattito al Consiglio di Sicurezza per bloccare il tutto? Tra qualche giorno lo sapremo, ma non c’è dubbio che la mossa dell’Ufficio del Procuratore della Corte penale ha rovinato la missione di Xi a Mosca.
Voglio però partecipare al gioco tipico delle previsioni (sbagliate) tanto care a chi si interessa di politica internazionale: siamo sicuri che nei palazzi del potere russo siano tutti (ancora) d’accordo con Putin e che non si stia lentamente formando una minoranza silenziosa che, pur contraria alle scelte scellerate del Presidente, non riusciva a trovare un modo per poter agire e che adesso ha una finestra di opportunità per agire? Una rivoluzione popolare e democratica in Russia è (ancora) impensabile magari qualche manifestazione pubblica sì, ma è così irragionevole ipotizzare un colpo di palazzo, una sorta di golpe bianco, che destituisce Putin e lo trasferisce narcotizzato verso un aeroporto militare e lo imbarca su un volo per l’Aia?
Anche se i soliti esperti ci stanno già spiegando che la Russia non è la Serbia, la fine di Milosevic è iniziata proprio con la pubblicazione del mandato di arresto spiccato dal Tribunale per la Ex-Yugoslavia. Venerdì 17 marzo è una data che farà la storia delle relazioni di forza in questo 2023. E, si spera, oltre.