di Veronica Pagano – Messina riscopre il piacere di tornare al cinema, ottenendo un primato: è la prima e (finora) l’unica città siciliana a proiettare il film “La Timidezza delle Chiome”, grande successo di pubblico e di critica, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e in programmazione al Multisala Iris dal 19 novembre scorso.
D: Parliamo di uno dei tuoi ultimi progetti, uscito nelle sale: la “Timidezza delle Chiome”. Perché questo titolo?R: Si riferisce a un fenomeno botanico in cui si ritiene che alcuni tipi di alberi nel crescere, per evitare di farsi ombra a vicenda, smettono di toccarsi con i rami disegnando delle geometrie fantastiche nel cielo. È un titolo che Valentina Bertani, la regista del film, ci ha proposto mentre eravamo in corso d’opera perché in realtà il titolo di lavorazione era un altro. Abbiamo ritenuto che fosse molto azzeccato per il tipo di storia che dovevamo raccontare.D: Come nasce questo film?
R: Nasce da un incontro, fortuito e molto fortunato. Valentina Bertani ha incontrato Joshua e Benjamin Israel (i protagonisti, ndr) per strada, sui Navigli, mentre stava parcheggiando il motorino. Ha cercato di fermarli perché rimasta rapita dalla loro bellezza e i ragazzi hanno tirato dritto, come è nel loro stile. Li ha cercati dappertutto, riuscendo a recuperare il numero della madre e scoprendo che erano molto conosciuti in quella zona di Milano perché figli degli ex proprietari de “Le Scimmie” (storico locale milanese, ndr). Abbiamo quindi incontrato la madre e i ragazzi e capito che, tra le mani, avevamo un progetto con un potenziale. Tutto questo accadeva nel 2016-2017.
D: Hai dichiarato “sembra così irreale che sia finito”, perché?
R: Perché è durato 5 anni! Ha avuto una storia produttiva molto avventurosa. Non è così consueto che un progetto audio-visivo, soprattutto se indipendente come il nostro, duri tanto tanto tempo. Sono film fatti con un budget relativamente piccolo che però è, allo stesso tempo, anche la potenza, il riuscire a lavorare con poco. Questo film ha avuto avventure e disavventure, ma anche fortune e incontri davvero imprevedibili: riuscire a chiuderlo, trovare una distribuzione così bella come “I Wonder”, arrivare al Festival di Venezia e poi portarlo qui a Messina nella mia città… sono cose che – posso assicurarti – fino a un anno e mezzo fa le avrei viste come molto lontane. Come però dice uno dei protagonisti nel film: tutto è possibile, quindi eccoci qua.
D: Quali difficoltà avete incontrato nel produrre un film indipendente come questo?
R: Per fare i film ci vogliono soldi, anche se pochi. Trovare fondi non è stato per niente facile e, quando abbiamo vinto i fondi governativi del Ministero della Cultura, è arrivata la pandemia. Tutti noi vivevamo nell’incertezza più totale e quindi abbiamo pensato seriamente di non riuscire a portare a termine questa storia. A quel punto, pur di poter proseguire, abbiamo deciso di includere anche la pandemia nel racconto, una scelta che è stata (in qualche modo) vincente. È un film che, nell’ultima parte, ci ha anche trasportati fisicamente all’estero, come si può vedere nel film.
D: Per chi è questo film?
R: Abbiamo un pubblico bellissimo! Abbiamo ricevuto critiche molto positive (e questo non è così scontato), ma – ancor di più – abbiamo ricevuto una risposta dalla sala davvero incredibile. Vedere come le persone riescano a cogliere delle sfumature arrivando a una profondità tale di senso di quello che volevamo trasmettere con questo film o che i ragazzi (Joshua e Benji, ndr), cui va la maggior parte del merito, sono stati capaci di trasmettere, mi lascia ogni volta sempre più sorpresa. La qualità del dialogo, delle domande poste ad ogni dibattito, le persone che ci scrivono, i commenti che riceviamo, persone che magari pensano al film una settimana dopo o che lo consigliano: è veramente tutto molto elettrizzante. Quindi direi che è un film per tutti: piace ai ventenni, piace agli ottantenni.
Nella prima serata, qui a Messina, c’è stato un signore che ha fatto un’analisi del film incredibilmente puntuale e mi ha stupita perché è stato capace di entrare in contatto con un film che io considero contemporaneo. È un film uscito nel 2022 e un signore di quasi 90 anni ha colto tutte le sfumature. Questa cosa mi riempie veramente di gioia: io sono molto grata del fatto che le persone vengano a vederlo e sono molto grata del fatto che siano contente di averlo visto… non è una cosa così scontata.
D: Qual è, per Alessia Rotondo, la scena più bella?
R: I ragazzi sono veramente impegnativi, da tutti i punti di vista, e questa è la loro bellezza. Hanno delle personalità molto carismatiche e tutte le personalità carismatiche vengono con un carico emotivo importante. Abbiamo lavorato con loro per 5 anni, ci siamo conosciuti quindi c’è tutta una vita parallela al set che non si vede sullo schermo, ma che è stata la precondizione per far sì che determinate cose funzionassero sul set: c’è una conoscenza talmente intima che ha permesso che loro si fidassero di noi e che anche noi ci affidassimo a loro perché la storia l’hanno scritta anche loro… sono autori tanto quanto noi.
Avventure e disavventure? Beh, abbiamo costretto i protagonisti e anche altri personaggi a fare il bagno in un fiume molto gelato (e per questo motivo veniamo ancora rimproverati!). Una volta, per girare una scena, uno dei protagonisti ha fumato troppe sigarette: noi gli avevamo chiesto di non terminarla perché sapevamo dove stava andando a parare, ma non ci ha ascoltato e quindi alla fine abbiamo dovuto interrompere le riprese di quella scena perché si è sentito male. Insomma: ne sono successe di ogni!
D: Tra tutti i tuoi lavori ce n’è uno a cui sei particolarmente legata e perchè?
R: Io credo che tutte le persone che scrivono abbiano un privilegio incredibile e siano in qualche modo responsabili di ciò che scrivono. Io mi sento molto responsabile delle storie che racconto. È ovvio che ci sono dei progetti che sento più connessi a determinati momenti della mia vita: questo è un film che mi rappresenta molto e ne sono molto orgogliosa di averne fatto parte. Sono ancora più felice di portarlo qui nella mia città e poter tornare con qualcosa di mio da poter condividere con gli altri. Però non me la sento di fare delle graduatorie perché crescere e magari superare determinati temi o determinate cose che hai fatto in passato è normale e giusto. Tutti i miei lavori hanno fatto parte di un pezzo della mia vita ed è giusto così: mi hanno permesso di fare quel passetto in avanti che mi ha consentito di fare cose nuove. Spero vada avanti sempre così perché mi piacerebbe un sacco continuare a fare questo lavoro.
D: Tra i tuoi lavori c’è “Over”, che hai realizzato per Freeda. Parlacene.
R: “Over” è una storia molto potente , che all’inizio, io non mi sentivo di raccontare. La protagonista è Sara Busi, con la quale adesso siamo molto amiche. Anche lei si è completamente affidata a me e io le sono molto grata per avermi lasciato entrare nella sua vita in una maniera così intima, quasi invadente. Lei, tra l’altro, all’epoca non aveva molta presenza social come adesso e quindi non era così scontato che si lasciasse raccontare in questo modo. Noi non ci conoscevamo quindi avrebbe potuto dirmi di no.