di Palmira Mancuso – Della sentenza in primo grado nei confronti di Mimmo Lucano non saremo qui a spiegare quanto sia abnorme, e soprattutto quanto sia fragile l’ipotesi accusatoria. Solo un dato “tecnico”: le ipotesi della Procura vennero subito smontate nel 2018 dal Gip Di Croce che respingendo ben 14 richieste di arresto, mise in evidenza come le ipotesi sui servizi di accoglienza sono così “vaghe e generiche” da rendere il capo d’imputazione “inidoneo a rappresentare una contestazione”. E nel 2019 arrivò la Cassazione ad annullare il divieto di dimora a Riace, per mancanza di “comportamenti” fraudolenti da parte di Domenico Lucano. Sulla storia del processo, anche per non addetti ai lavori, un articolo di Giulio Cavalli sul Riformista fa il punto.
Quello di cui davvero preme parlare è il dovere morale di stare con Mimmo Lucano, di sostenere un uomo che, proprio in quanto onesto e semplice, subisce nel profondo l’ingiustizia di una vicenda giudiziaria, col suo carico di amarezza e di preoccupazione per il futuro. Lui da calabrese è ferito perchè conosce il linguaggio non espresso che invece è compreso benissimo dalla gente, in Calabria, come in Sicilia, come in qualsiasi altro posto dove il “cambiamento”, il riscatto sociale, la circolazione di idee nuove danno fastidio, vanno soffocate. Possibilmente sul nascere. Cosa che con Mimmo Lucano non è accaduta, perchè lui è stato forte di quella stessa caparbietà che i calabresi hanno, una tempra che gli ha permesso di fare di quel paesino della Locride addirittura un “modello”.
Ma lui conosce bene la sua gente: questa sentenza ha instillato “il dubbio”, e questa è la ferita più grande nel cuore di Mimmo. Lo abbiamo visto ieri, in quell’anfitetaetro tornato da poco sgragiante di quell’arcobaleno che l’amministrazione aveva lasciato scolorire. E a Riace una sorta di “coprifuoco”: c’erano troppi stranieri, quelli che nel corso degli anni hanno messo piede nella “città futura” di Lucano, che hanno rotto quella “tranquillita’” che spesso coincide col silenzio della sottomissione, con la calma piatta di un paese che era spopolato ed ora è meta di registi di fama internazionale come Wim Venders. Quegli uomini seduti al bar accanto alla Chiesa erano li a vederci sfilare, “ora ci arrestano tutti” hanno commentato ironicamente al nostro passaggio, infastiditi che nemmeno l’elezione del sindaco leghista, nemmeno i suoi divieti di dipingere i muri (alcuni murales sono rimasti incompiuti) e nemmeno una sentenza di tribunale abbia messo la parola FINE a questo “scassaminchia”.
In questi anni la politica ha delegato alla magistratura ogni questione morale, con la conseguenza di delegittimare gli organi giudiziari, compromettere la terzietà dei tribunali, disimpegnarsi sulle scelte di campo.
La vicenda di Mimmo Lucano è per questo tutta politica, e anche se la sentenza fosse corretta il problema e’ tutto nella legge che è sbagliata: quella legge Bossi-Fini che criminalizza l’accoglienza e l’inclusione dei cittadini, unico fine per il quale sono stati spesi i soldi che sono arrivati a Riace attraverso i finanziamenti europei.
Prima di Riace nessuno aveva mai pensato ad uno “sprar diffuso”: a ripopolare borghi fantasma con persone, famiglie, disposte a ricominciare anche riprendendo gli antichi mestieri del luogo, dalla forgia al frantoio. I soldi sono li: in quei macchinari acquistati, in quelle migliorie che hanno restituito vivibilità al paese, in quei murales che hanno colorato spazi e grigi.
Andateli a vedere, andate ad incontrare Domenico Lucano. Non servirà leggere sentenze per capire chi avete di fronte. E in questi giorni in cui sarà ancora il voto, chissà quanto consapevole o quanto clientelare, a fare la differenza, speriamo ancora che dalla Calabria arrivi un segnale politico di speranza.