di Cesare Natoli – C’è da riflettere. Per capire, intendo. Per capire come si è arrivati a tutto questo. Non al virus, alla pandemia. Per quello ci vogliono competenze plurime e io ne ho poche e inadatte. Per analizzare un altro aspetto, forse, qualcosa la possiamo comprendere tutti un po’ più facilmente. Come si è arrivati, cioè, a questa contrapposizione tra presunti specialisti tecnico-scientifici, da un lato, e altrettanto presunti ignoranti e presuntuosi, dall’altro. È un percorso lungo, complesso, articolato. Impossibile riassumerlo in poche righe. Ma proviamo, appunto, a capirci qualcosa.
Credo che tutto sia iniziato, più o meno, dalla seconda metà degli anni ’80, con l’affermarsi graduale dei talk show e con il loro passare altrettanto graduale e inarrestabile dall’ospitare e dare voce a personaggi bravi nel loro campo (artisti, attori, cantanti e così via) che, gradualmente appunto, sono stati sempre più chiamati a dire la loro su argomenti di cui non sapevano una mazza o quasi. È la nascita del tuttologo, insomma. Di chi, cioè, è bravo a ballare, ad esempio, e gli si chiede come risolvere il problema della fame nel mondo. Il fenomeno è cresciuto a dismisura. Il tuttologismo è diventata una vera e propria tendenza. Più o meno, diciamocelo, sino ai giorni nostri. Poi sono arrivati i social, facebook in particolare. E, come previsto da menti acute come Umberto Eco, essi hanno dato voce a tutti, anche a chi, forse, non aveva – e non ha – molto da dire. È la democrazia, si dirà, ed è assolutamente vero. Ma spesso è un fenomeno deprimente, diciamocelo. E anche pericoloso, perché c’è chi, com’è noto, sull’analfabetismo funzionale, sulla credulità popolare, sulle fake news ha costruito una base importante del suo consenso politico e non solo. E lo ha fatto anche con una critica implicita, quando non esplicita, nei confronti del Sapere e di chi lo rappresenta (i ‘professoroni’, i ‘dottoroni’, come ama spesso dire un politico ex ministro, mettendosi volutamente dalla parte di un popolo chiamato così ad odiare chi sa, chi studia). Si tratta, anche qui, di un fenomeno molto pericoloso. Un fenomeno che va combattuto con gli strumenti della cultura, con la scuola, con un’informazione onesta e competente. Punto.
Parallelamente, però, e questa è cosa più fresca, è venuta fuori un’altra categoria, non meno pericolosa e inquietante: il tecnico, lo specialista, l’esperto. Quello cui i sacerdoti del sapere avrebbero dato la sacra missione di ricondurre il gregge sulla retta via, mostrando a tutti il Verbo dello specialismo. Già, lo specialismo. Un mostro tentacolare della modernità, che gli epistemologi conoscono molto bene e che menti raffinate hanno cercato di combattere in tutti i modi. La scotomizzazione, l’iperspecializzazione, la comprensione sempre più chiara del particolare, che ti fa perdere di vista la complessità dell’intero. È un fenomeno che chi ha studiato la Storia del pensiero e della Scienza (quella vera) conosce benissimo. Ma qui non parliamo di scienziati, signori. Parliamo di personaggi patetici, bravi a dirvi magari come si fa l’amuchina in casa, puntuali nel rispettare appuntamenti televisivi in prima serata, e magari a denigrare su twitter chi non la pensa come loro. La Scienza, quella vera appunto, è un’altra cosa.
Quella che qualcuno vuole fare passare per scienza, invece, si chiama in un altro modo: scientismo, una vecchia forma di scienza, di stampo ottocentesco, comtiano. Un approccio sconfitto dalla Storia, che nonostante ciò (lo ha fatto notare giustamente qualche tempo fa Ivan Cavicchi) ha la pretesa di proporsi come:
– metafisica, cioè valore assoluto, incontestabile, autoritaria e impositiva;
– conoscenza cartesiana e oggettiva dell’uomo;
– riduzione della persona ad organo, o peggio, ad ‘infettato’;
– malattia, ma non persona in un contesto;
– proceduralismo
Una scienza ‘dispotica’, incapace di avere contraddittorio, che pretende – proprio come più un secolo fa – una sottomissione totale a ciò che essa dice. E ciò nonostante l’ovvietà che le sue evidenze siano – dal punto di vista epistemologico – paradigmi provvisori e – giustamente – falsificabili e nonostante tutti gli standard siano spesso smentiti dai casi singoli, dalle specificità, dalle singolarità. Una scienza che, sono ancora parole di Cavicchi, “anziché sforzarsi di ridefinirsi nelle complessità del mondo, dialogare con le persone, evolvere, ripensarsi, si limita a chiedere alle forze politiche di proteggere la sua invarianza, cioè la sua refrattarietà al cambiamento”. Una scienza che si bea dei salotti e dei social.
I luoghi ideali, questi ultimi, per blastare i webeti. Due neologismi molto tristi. Per chi non lo sapesse, significa distruggere, umiliare con sarcasmo, insultare i presunti ebeti del web. C’è un virologo recentemente in auge che imperversa in tv che di questa ha fatto la sua attività principale. Peccato che ad essere oggetto del suo nauseante blasting non sono solo i presunti webeti, ma anche colleghi medici, giornalisti, filosofi, scienziati. Tutti, insomma. Basta che siano contrari a quelle quattro ovvietà che un medico serio che lavora in ospedale conosce senza strombazzarle ai quattro venti. E lo fa con un’arroganza e una protervia imbarazzante, inaccettabile. Volete qualche esempio? Sei un ricercatore universitario? Stai zitto, io sono ordinario e ho ragione, punto. Sei un virologo che qualcuno dice sia stato candidato al Nobel? Ma forse sei stato candidato a Miss Italia. Hai quarant’anni e ancora non sei ordinario? Sei uno sfigato da bar e da periferia. Potrei continuare, ma mi fermo perché già i conati avanzano…
Eppure… Eppure, niente, lo specialista da salotto televisivo si sente investito di questa missione. Ed è qualcosa che, appunto in quanto sacro, non può e non deve essere messo in discussione. Se lo fai sei chiaramente un cretino, un ignorante, un miscredente, un no-vax (ultimamente quest’ultimo epiteto è più gettonato dell’eterno ‘sei un cretino’)… Anche se magari hai appena fatto fare tutti i vaccini previsti dalla legge per i tuoi famigliari. Non ha importanza: contesti l’esperto? Sei un ignorante, un webete. Ma fa divulgazione, dirà qualcuno. No, signori, la divulgazione è un’altra cosa. La divulgazione la si fa senza protervia, con umiltà: potremmo fare mille esempi. Il più luminoso e conosciuto è Piero Angela, ora seguito con altrettanta bravura dal figlio Alberto. Immaginate se uno dei due aprisse un documentario sulla rivoluzione francese dicendo:“Okay, io questo argomento lo conosco bene e voi siete asini, quindi statemi a sentire”.
Ed ecco, vedete, succede anche che questo tipo di personaggi incontri anche un certo favore. Sapete in chi? In quelli che, non riconoscendosi nel popolino, nella gente comune, nei ‘villani’, vede nei personaggi in questione qualcuno che incarna il loro bisogno, più o meno consapevole, di sentirsi una elité; di appartenere ad una genia elevata, superiore, per casta o censo (o semplicemente perché fa figo) che nulla ha a che fare con gli ignoranti. Con gli ignoranti e con il popolino non c’è speranza, pensano. E si consegnano al tecnico, specie se fresco di parrucchiere, ben vestito, con i tempi televisivi giusti. E non importa se gli fai notare che, se è un medico, ad esempio, passa più tempo in televisione che non nelle corsie di ospedale, dove i medici veri si spaccano la schiena e sudano sangue. No. Non importa se gli fai notare che uno di questi signori ha scritto un libro in cui ci spiega “Perché la scienza non può essere democratica”. Evvivamaria, certo che la scienza non può essere democratica. Se a discutere di coronavirus sono un epidemiologo e un arrotino il secondo tace e impara. Così come se a parlare di infarto sono un cardiologo e un professore di fisica nucleare: il primo spiega, il secondo ascolta. Ma attenzione, a parte questa ovvietà, la scienza è e deve essere democratica. Nel senso che se a parlare di un tema scientifico come un virus sono due virologi, entrambi hanno uguale diritto di parola. Specie se il tema dibattuto è ancora un terreno prevalentemente sconosciuto. La Scienza, quella vera, non può e non deve essere dogmatica. Quando lo ha fatto, ha creato solo danni, anche molto gravi. Ce lo insegnano grandi epistemologi come Popper, Feyerabend, Kuhn, Prigogine, Morin. Ossia giganti, in confronto ai nani che fanno per adesso passerelle in televisione. È a quei giganti che dovremmo tornare a guardare e, anche e soprattutto, a chi suda sangue nelle corsie degli ospedali. Gli specialisti da salotto televisivo lasciamoli perdere. E ascoltiamo quante più voci possibili della comunità scientifica, non solo quelle che ci propina il mainstream. Se, poi, non stiamo parlando solo di un virus ma di un vero e proprio fenomeno globale, che coinvolge tutti, dico tutti gli aspetti della vita civile, psicologica e sociale dell’Umanità, allora a parlare e ad essere ascoltati devono essere tutti gli scienziati. E per tutti intendo appartenenti ad ogni ambito coinvolto: psichiatri e psicologi, pediatri, sociologi, antropologi, economisti, filosofi, operatori della scuola e della formazione, giuristi… L’elenco è lungo. Quella che stiamo vivendo non è solo un’emergenza sanitaria. C’è bisogno di tutte le competenze. Ma quelle vere. Lasciate social, twitter e ospitate televisive a chi vuol fare, prevalentemente, solo quello.