di Fra Giuseppe Maggiore – Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Spero di sbagliarmi, ma considerando gli avvenimenti ultimi, scorgo tra i credenti un atteggiamento nei confronti della fede puramente intellettuale, come accettazione di alcune verità o come baluardo culturale da difendere ad ogni costo contro attacchi culturali o religiosi esterni. Una fede camuffata da una presa di posizione teorica, lontana dal vero significato che essa conserva e nel contempo lontana dai risultati che la vera fede può apportare nella società o nella comunità. Il Signore non ha cosa farsene dei cosi detti “cristiani da sacrestia” impegnati solamente a fare riunioni, a organizzare processioni, a combattere le loro crociate moraliste cercando sempre un nemico da mettere alla gogna come peccatore, che cambia di stagione in stagione, pensando che difendendo norme, precetti, tradizioni ormai appartenenti al passato, sia fede.
La fede è fiducia è abbandono in Dio. È ciò che viviamo quotidianamente nei luoghi che frequentiamo. È ovvio che tutti abbiamo bisogno di un aumento di fede. Dio ci ha fatto un dono, ma sta a noi coltivarla, concimarla, rispolverarla, riscoprirla…viverla. Eppure se avessimo fede quanto un granellino di senape sradicheremmo gli alberi per piantarli in mare o sposteremmo le montagne, per dirla come Gesù. Tutto ciò potrebbe servire solo per far crescere le nostre manie di grandezza, ma certo non servirebbe per la nostra salvezza. Ciò che conta è capire che nella vita di fede non serve la quantità ma la qualità. Spesso cadiamo nell’errore che più volontariato facciamo, più preghiere bisbigliamo, più corone di rosari sgraniamo, più messe ascoltiamo, più elemosine e candele accendiamo, più fede otteniamo, beh non funziona così. Basta una tribolazione, una malattia, una frana, un’incidente, una qualsiasi cosa che turba la nostra esistenza ed ecco che la nostra vita di fede vacilla come quella casa costruita sulla sabbia. La fede è relazione intima con Dio, con Gesù. È assumere i sentimenti di Cristo come ci ricorda San Paolo, imitarlo nella preghiera personale e comunitaria, imitarlo nell’accoglienza, nell’ascolto, nella condivisione con i poveri gli esclusi gli emarginati dalla società. Imitare Cristo partecipando come servo fedele alla vita del luogo dove si vive dando il proprio contributo senza doppi fini, senza avere nulla in cambio, senza la logica del clientelismo, del potere. La fede è sapersi conformare a Cristo povero e crocifisso, non mollare nonostante le avversità.
Mi vengono in mente i sorrisi, gli sguardi di tanti ragazzini diversamente abili, di tanti adulti ammalati, di tante persone che sanno di non farcela, eppure i loro occhi parlano di Dio, le loro mani ti regalano carezze di paradiso e le loro parole sono Vangelo vissuto. Dimostrazione che la fede si è un dono, ma va giorno per giorno alimentata da noi. Per accrescere la nostra fede dobbiamo entrare nella logica della chiesa del grembiule o delle maniche rimboccate, servire senza avere una ricompensa e senza nulla pretendere.
A volte un grazie fa bene, ma se non arriva che fai smetti di seminare il bene? La fede va di pari passo con le opere senza le opere è nulla non serve a nulla. L’impegno per gli altri, lo sviluppo delle relazioni, la solidarietà, la carità sono le palestre in cui la fede si esercita e cresce.
Una sera quando ero in Marocco, dopo essere stato con dei ragazzini di strada che respiravano colla, tornai in convento stanchissimo, passai dalla cappella e aprii il vangelo, la frase che lessi fu proprio questa: “quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Quando stavo per uscire dissi fra me e me: “Signore, almeno tu puoi dirmi grazie” poi ho capito che a modo suo mi stava ringraziando, perché inutile in questo contesto evangelico significa: servi senza pretese, senza rivendicazioni, senza secondi fini. Mi sono sentito grato di far parte di quei servi che Egli chiama ad osare la vita, a scegliere, in un mondo che parla il linguaggio del profitto, di parlare la lingua del dono in un mondo che percorre la strada della guerra, di prendere la mulattiera della pace. Allora ti accorgi che tutto ciò che fai va restituito al Signore, datore di ogni dono e che il nostro è e deve rimanere un impegno come di servi, non come padroni, come servi chiamati ad essere trovati sempre all’opera capaci di mettere a frutto i propri doni per il bene dei fratelli nella costruzione della civiltà dell’amore