Ieri si è tenuto all’Università Cattolica di Milano, il convegno, promosso, dall’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia penale e dalla Scuola Superiore della Magistratura, per ricordare il “coraggio” e la “fede” del giudice Rosario Livatino, assassinato a soli 37 anni dalla mafia agrigentina il 21 settembre 1990.
La tematica del convegno porta il titolo di una conferenza tenuta dallo stesso Livatino nel 1984: “Il ruolo del giudice nella società che cambia”.
Molti gli interventi che hanno provato a restituire la ricchezza della figura del magistrato – venerato dalla Chiesa come Servo di Dio – la cui fase diocesana del processo di beatificazione si è conclusa il 3 ottobre scorso.
A partire dal rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli, che, nei saluti iniziali, ha ricordato il “silente sacrificio” del giudice siciliano ricordando come in Italia vi siano stati 28 magistrati uccisi dalla criminalità organizzata “un dato non da Paese europeo”.
L’assistente ecclesiastico dell’Università Cattolica, Mons. Claudio Giuliodori, ha invece sottolineato la figura di un magistrato il cui profilo professionale era “inseparabile dal suo profilo morale e personale”, auspicando che “il seme del suo sacrificio possa portare frutto per il mondo della giustizia”.
Antonio Albanese, Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università Cattolica, ha voluto ricordare alcune frasi dello stesso magistrato siciliano: “Al termine della vita non vi verrà chiesto se siete stati credenti, ma se siete stati credibili”. E ancora: “Per la fede cristiana la giustizia è necessaria ma non è sufficiente, perché deve essere superata dalla carità”.
L’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, intervenuto anch’egli al convegno ha voluto ha posto una domanda: “Quale potrebbe essere il percorso di santità di un giudice?”, proponendo ai magistrati presenti un cammino che, come tutti i cammini di santità cristiana, si muove in una dinamica che richiede di “morire prima di poter risorgere”. Mons. Delpini ha proposto cinque passi di discesa agli inferi che, nella professione del magistrato, iniziano con “la soffocante quantità di lavoro che incombe sui giudici”, proseguono con “lo smarrimento tra la complessità e a volte addirittura la contraddittorietà della produzione legislativa” e con “lo sconcerto di fronte alla litigiosità delle persone” per arrivare allo “spavento per il male e la crudeltà che conquista il cuore umano”, fino a soffrire, come ultimo passo, dello “scarto che si avverte tra la funzione rieducativa della pena e la necessaria riparazione del male compiuto”. A fare da contraltare a questi passi ci sono “almeno altre cinque caratteristiche di elevazione verso la santità”.
“La prima – ha affermato mons. Delpini – è la capacità del giudice di riconoscere la persona, la sua dignità e non solo il delitto”. Il secondo passo è rappresentato dalla capacità di “perseguire il principio della coerenza e non del successo”.
“Il giudice – ha detto l’arcivescovo – non cerca l’applauso del pubblico e l’approvazione degli organi di stampa. Non agisce per successo ma per coerenza”. Il giudice inoltre non persegue “interessi di parte” (3° passo), “mette al primo posto i diritti dei più deboli e non l’arroganza dei potenti” (4° passo). Infine, il magistrato santo “non persegue l’utopia, la rivoluzione, ma la giustizia possibile, il realismo. Fa onestamente il suo servizio percependo la distanza tra giustizia (con la ‘g’ minuscola) e la Giustizia che soltanto in un altro mondo è possibile realizzare” (5° passo). “Mi sembra – ha concluso mons. Delpini – che seguendo la vicenda del giudice Livatino si possa incoraggiare chi tra i magistrati cristiani desidera questa vocazione alla santità. Anche voi potete diventare santi!”.