di Giuseppe Amoroso – Individuate con capillare ricerca e adeguato orientamento interpretativo le fonti culturali (da Leopardi ai Crepuscolari e a Palazzeschi, da Baudelaire a Montale), che connotano la silloge poetica Perché non mi avete svegliato prima (edizione fuori commercio, pp. 63) di Domenico Falino, l’Introduzione di Anna Maria Crisafulli favorisce l’immediato inoltro del lettore nel percorso testuale.
Lineare e guizzante, limpida pur nelle giravolte senza tregua delle evocazioni memoriali («Agra tristezza mi coglie/assorto a ricordare/passate vite/antiche sensazioni…»), la trama linguistica custodisce, in serrate misure, un’intangibile e ben strutturata versatilità comunicativa, un brulichio di riferimenti personali.
La voce dell’io («trasferito dal vuoto al nulla»), in temporanei apici di grido o riflessa in uno scorrente piano discorsivo, sommuove alle radici la sostanza dell’inclinazione pensosa, sfruttando una tastiera di coinvolgenti strumentazioni epifaniche: il ripiegamento su particolari oggetti significativi, peculiari di un interno (lo specchio, una foto d’insieme, un lavabo) o sulla gelida indifferenza di un paesaggio invernale; la curvatura più sofferta di una sentenza, di un ragionamento (il gioco di un castello di carte «sempre destinato a crollare»); il richiamo a un’atmosfera per trasfigurare l’esposizione troppo enfatizzata dell’io (che compone versi sulla «vita caduca»); la trasformazione di uno stato psicologico in una condizione esistenziale più ampia (la vita che appare come «vuoto a perdere»); l’individuazione di un clima ossessivo mediante rapidi processi ellittici («Grida potenti/diffuso malessere/snervante tedio». Inoltre, il sistematico inseguire i ricordi, privandoli spesso del conforto-dolore dell’elegia, ma distribuendoli quasi lungo un tracciato narrativo con la colonna sonora della loro essenzialità che è dissonanza, contrasto, stridore, cercata, elaborata disarmonia, effetto di ipnosi.
La scrittura, sebbene palesemente agganciata – come è stato indicato – a echi che parlano dai libri, è densa di lineamenti e riverberi autonomi, talora sibillini (soprattutto nei veloci scambi di scena fra verso e verso, tra piano orizzontale e quello verticale), impegna suoni in modalità tecniche che modificano o prolungano la voce originale delle cose e del «tempo srotolato», spreme dai lemmi, a primo impatto comuni e leggibili di un vocabolario familiare, gli indizi, i suggerimenti più segreti, quasi convocandoli dalla lontana deriva, nella quale i giorni frettolosi e uguali li hanno spinti, e dallo smottamento delle certezze – («Mani/alto levate/invocano/un dio/muto»). E collega, questa scrittura nervosa, le recite e gli inganni e gli episodi delle confessioni autobiografiche attraverso intrecci volutamente irrisolti e una sintonia di ritmi brucianti che talora sembrano scombinare e lasciarsi alle spalle, nel silenzio, i legami maggiormente coesi e logici. La sintassi elencatoria, quando giunge a qualche punto più rovente brucia le nervature didascaliche, e appare come sciolta dai canoni al fine di indirizzare l’introspezione del poeta verso la ricerca esaltante degli ingorghi più scuri della psiche (la «cappa dei rimorsi» è bella nelle mani di un amore).
Traslucido e un po’ metaforico e astratto, il paesaggio, pure talvolta rapinoso e apocalittico («Il vento di dicembre defolia una betulla,/ulula e turbina fra i rami,/e la città ricorda il suo destino:/qui regnò il gigante, qui regnò la sabbia,/ma noi dobbiamo continuare/a costruire/come se la sabbia fosse roccia»), aziona funzioni diverse: ora placato e descritto nella successione di due ottonari, si apre a un circuito di malinconia; ora affida il «destino» di una città alla cantabile sonda di un endecasillabo; ora, nella lirica conclusiva, attraversata da un ripiegamento sofferto dell’io, tocca uno dei momenti più qualificanti, rivelandosi nella dolceamara «sera novembrina», un misterioso territorio, ove coesistono le «vite frettolose» di un formicaio, la città affollata «ribollente/di flora e fauna» e l’autore che «non rischia il disagio/dell’indesiderata compagnia», ma solo e colmo di tristezza resta a «guardare».
Tuttavia, forse qualcosa che sfugge nella lettura del paesaggio esiguo, quasi stilizzato, riesce a far emergere tutta la magia del reale, lo stupore di una luce, l’aria di una stagione trasognata, come senza storia, la visionarietà di alcune scene.
Poesia inusuale, quella di Falino, che confessa di non sapere il motivo per il quale «dice/queste cose», pensa che la risposta ai suoi interrogativi forse sia nelle «bolle d’acqua/che appaiono e scompaiono», scopre tante insidie nel «lungometraggio» dell’esistenza e, ancora, si abbandona ai dubbi e alle certezze. E intanto lo assale la marea delle lusinghe dell’amore, il «sogno mai interrotto», l’ironia, in una altalenante tenuta espressiva di scarti improvvisi, «acrobazie di figure fantasmatiche», cambi di marcia, inversioni, inattese sottrazioni di legami, e, insieme, «lenta scansione in moviola» di immagini affannate.
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