di Palmira Mancuso – “Di sprezzo degno sè stesso rende, chi pur nell’ira la donna offende…” Rifacendoci a Germont (Giuseppe Altomare), unico tra i protagonisti della scena a far sentire quel dignitoso fuoco che Giuseppe Verdi ha trasposto nella celeberrima Traviata, non useremo parole sprezzanti verso Violetta (Elvira Fatykhova) che sulla scena è apparsa non all’altezza del personaggio che da secoli rappresenta l’eroina della redenzione spirituale, la cortigiana che sacrifica il proprio amore pur di salvaguardare il buon nome dell’amato.
Verdi, quando si confrontò con il librettista Francesco Maria Piave, chiese che questa storia fosse il più possibile “originale e accattivante nei confronti di un pubblico sempre teso a cercare in argomenti inusuali un confine alla propria moralità”.
Ecco, certamente, l’opera a cui abbiamo assistito al Vittorio Emanuele non ha toccato quelle corde dell’anima, e Alfredo (Roberto Iuliano) non ci ha fatto innamorare. Tutto si è svolto in maniera pulita, didascalica, una normalità che non ha particolarmente esaltato il pubblico appassionato di opera.
Ovvio che non possiamo non apprezzare il lavoro collettivo, le scene, i costumi: ma la regia di Carlo Antonio De Lucia è scivolata sui mezzitoni, non lasciando spazi ne alla contemporaneità dei significati, ne alla creatività artistica.
Eppure resta intatto il valore della Traviata, la bellezza di un linguaggio che è patrimonio tutto italiano, la caparbietà della direzione artistica di recuperare l’appuntamento ad un cartellone interrotto, il coinvolgimento di maestranze tutte capaci di eseguire una partitura inevitabilmente aperta a confronti a volte (come in questo caso) impietosi.
Questa Traviata, pur se raggiunge senza dubbio la sufficienza, non resterà nella storia di questo nostro teatro, che tra l’altro continua a soffrire dei consueti problemi di acustica: ma la tiepidezza del cantare non sia quella degli applausi, dovuti a chi si impegna e ci crede.
Domani l’ultima replica.