di Giulia Carmen Fasolo – Fosse così rapido risolvere la paura dell’altro con uno sparo, bendandoci gli occhi sulle conseguenze e l’atrocità del gesto, saremmo tutti morti. Oppure ciechi, per dirla alla Saramago. L’altro da noi è un estraneo, soprattutto se straniero. Così diventa necessario difenderci. E che vinca il più forte. O quello più armato.
Ieri sera, nella cornice del Teatro Beniamino Joppolo di Patti, ha avuto avvio la sesta stagione di Scenanuda, la rassegna teatrale diretta da Michelangelo Maria Zanghì (per la prosa) e Chiara Pollicita (per la musica) per conto dell’Associazione Filòkalon. Ad aprire metaforicamente il sipario “Legittima difesa”, uno spettacolo teatrale di Laura Giacobbe, con la regia di Roberto Bonaventura.
Tre gli attori, quattro i personaggi.
La prima comparsa, interpretata dal sempre più convincente Michelangelo Maria Zanghì (in doppia veste), fa ingresso in maschera, parla il dialetto del nostro nord-est e spinge il pubblico a ingurgitare il frullato vocale sulla difesa personale e i diritti soggettivi.
L’ambiente è un appartamento munito di ogni sistema di sicurezza, in cui il suo proprietario – sconfortato e paranoico – si rintana per sei giorni interi. Non esce affatto di casa, non per evitare di imbattersi in specchi umani che riflettono le sue paranoie, ma per ripararsi dal mondo esterno che essendo tale sarà certamente saturo di nemici. Prima di mettersi “in sicurezza” in casa, compra un’arma.
Sullo sfondo un pilastro “sottile”, sormontato da una troppo grande palla d’acqua con un finto pesce dentro. Luminoso quanto boccheggiante. Il pubblico ne ha quasi patimento: facile ritrovarsi, considerando che anche noi viviamo dentro una grande palla che ci disperde e allo stesso tempo ci fa girare in tondo.
Mancano, ma arrivano presto, i due attaccabrighe vestiti da ladri maldestri. Uno napoletano, palesemente ladro. L’altro slavo, di professione consegnapizze. Italiano e straniero. Dualità raramente concilianti, tranne sulla certezza di chi comanda. Buoni e cattivi entrambi, bugiardi e sinceri.
Abbiamo saltato l’iniziale balletto esilarante, in cui i ruoli tra vittima (il proprietario) e aggressore (il ladro napoletano) si confondono in una reciprocità e alterità che turba. Si sparano a vicenda, a staffetta. Finché l’ultimo sparo egodiretto pone fine alla danza.
Francesco Natoli interpreta l’inquilino e convince per quella sua straordinaria capacità attoriale di farci dimenticare che siamo a teatro. Il proprietario, dicevamo, rivendica la legittimità della difesa con le armi. Perché l’arma è seduttiva: ci permette di sottrarci all’ipotesi di ricevere crudele e gratuita violenza fisica, anche quando è ben lontana dal trasformarsi in atto. In fondo, sparare sembra il legittimo diritto di chi paga le tasse. Chi abbiamo di fronte va fermato, qualsiasi sia la sua intenzione.
Altrettanto magistrale l’interpretazione convincente degli altri due: a Giuseppe Capodicasa tocca indossare il passamontagna, gli abiti e l’accento del napoletano; a Michelangelo Maria Zanghì, il tremore dell’apparente incertezza dello slavo e il suo suggestivo parlare. Ed è proprio quest’ultimo, pur essendo straniero e quindi considerato agli antipodi da noi, che ci permette di fare una lunga riflessione. Zanghì ci inchioda alle poltrone e senza mai sbavature nella recitazione ci accompagna nel tortuoso percorso di riflessione. Le paure, il cervello atavico, le “magie” che provocano rabbia, tutto ciò che precipita la perdita di controllo… ingredienti di un attacco di cefalea che colpisce senza distinzione gli attori e il pubblico, gli aggressori e le vittime.
Sul palco un far west di pensieri e di azioni che dilata la realtà in tutte le sue possibilità e viene rappresentato anche grazie alle luci, alle parvenze fisiche (straordinari i palmi aperti di Zanghì), alla professionalità degli attori, della regia e di tutto lo staff.
Un confronto, tra i tre sul palco, che diviene un ritmo incessante di suggestioni. Il pubblico lo sa: è ancora una volta quel pesce inchiodato nella palla distopica, su cui viene scaricata una boccettina di mangime per pesci. Il nostro immaginario viene rifocillato dalla politica razzista, colpevolista e populista. Con il contratto sociale, sottoscritto a suo tempo, abbiamo delegato le forze del disordine a politicizzare le nostre paure e le nostre pancie.
L’incubo di essere derubati si trasforma nell’incubatrice dell’idea di essere morti. La paura è un deus machina che è peggio della luce digitale di quel pesce nella boccia, che sostituisce la certezza di una pena a reato compiuto con la possibilità di difenderci da noi, annientando la paura con uno sparo. Così deformiamo ogni cosa e l’altro è pericoloso in quanto altro e non in quanto violento. I deboli argomenti vengono confutati. Certo, è vero che non ci si conosceva neanche prima di “quel momento”, ma siamo in due in casa e uno dei due è di troppo. E poi: questo straniero cosa vuole da noi? Di cosa ci vuole derubare?
Oggi la politica è uno specchio delle nostre brame e offre la possibilità di comprare, detenere e usare un’arma come antidoto alle nostre paure, fondate o meno. Basta uno sparo e qualsiasi cosa sparirà, che sia l’immaginazione o la realtà. La paura è il grilletto che spara su chi vuole derubarci davvero o chi, semplicemente, ci vuole consegnare una piazza.
In scena non tutto viene detto chiaramente, molti messaggi vengono subliminati dall’ironia, dal paradosso. Ma tutto è ugualmente chiaro: siamo in una trappola disumana che chiamiamo legittima difesa.
Espressività, interpretazione e possesso della scena convincono il pubblico che decreta Scenanuda una tra le migliori rassegne teatrali della Sicilia e non solo. Ciò perché da noi non sempre i talenti scappano, anzi qualche volta restano e costruiscono per noi alternative alle brutture. Per questo non ci sorprende che “Legittima Difesa” abbia vinto il bando SIAE “Nuove Opere” dedicato a compagini di attori under 35. E neanche che siano stati davvero così tanto bravi. (foto Domenico Genovese)