di Palmira Mancuso – Quando il bacino elettorale è sinonimo di bacino clientelare, ecco che la politica ha fallito. In questi giorni l’ultima vicenda giudiziaria che ha coinvolto Emilia Barrile non è che l’ennesima dimostrazione di come il “verminaio” messinese sia tutt’altro che debellato. E di come la società messinese, in molte delle sue rappresentanze sociali, economiche e politiche, sia strettamente collegata a sistemi che prima o dopo finiscono nel mirino della magistratura chiamata all’immane lavoro di “pulizia” di corruttele che danneggiano chi resta fuori dagli “oleati meccanismi” di una corruzione dilagante. Di una corruzione che è morale, prima ancora di diventare reato punibile per legge.
Emilia Barrile, al netto di ciò che decideranno i giudici con un giusto processo che potrà garantirle una altrettanto legittima difesa (come in uno stato di diritto che si rispetti) mostra l’ennesimo esempio di come a Messina la via del “favore” resti la più praticata per raggiungere la comprensibilmente auspicata emancipazione sociale, attraverso una stabilità economica: il lavoro che per molti resta un miraggio.
La corruzione morale sta in quella sottile linea dove tutto è giustificato perchè “in fondo la Barrile stava cercando di “sistemare” la figlia e la moglie di un amico, e al posto suo non l’avreste fatto?. Finchè la risposta non sarà un NO potente e cosciente contro quel “do ut des” tutto siciliano, giustificato con un termine che di “amicizia” ha ben poco, la nostra vita sarà sempre subordinata a piccoli o grandi gruppi di potere che impediscono la crescita di una intera società.
A leggere le carte dell’inchiesta, che depositata a marzo del 2018 chissà che conseguenze avrebbe avuto sulla campagna elettorale e sulla nomina nel cda dell’Università del fondatore della Fire Sergio Bommarito avvenuta a maggio del 2018, è evidente quella che gli inquirenti definiscono “allarmante spregiudicatezza”.
La “spregiudicatezza” a noi che possiamo solo osservare il fenomeno da un punto di vista sociale e politico, consiste proprio in questo senso di impunità che non deriva dalla sempre più complicata efficacia dei processi, ma da quell’impoverimento etico che a tutti i livelli investe la gente comune. Insomma non esiste più vergogna, se non nei commenti alle Fake News sugli sperperi di denaro pubblico per l’accoglienza dei migranti.
Viviamo in tempi in cui anche garantista e giustizialista si contrappongono come aggettivi politici, collocandosi ben al di sotto di un necessario dibattito che riporti piuttosto la Politica a governare i fenomeni e liberare gli elettori – cittadini da una scelta obbligata dalla mannaia del bisogno a cui fa leva la maggior parte delle espressioni partitocratiche.
Appellarsi al “processo mediatico” per sminuire la portata di certe inchieste aumenta solo la sfiducia nelle istituzioni e nella democrazia, dove i diritti sono garantiti dalla responsabilità dei ruoli, compreso quello di chi fa informazione.
Appare quindi importante informare giornalisticamente dei rapporti tra gli indagati di questa ultima inchiesta firmata dalla Procura di Messina che eredita una mole di lavoro, interrotto ma impostato su solide basi, da un magistrato che è stato capace di leggere la società messinese come Sebastiano Ardita, adesso al CSM, e che aggiunge un altro tassello al quadro non certo edificante che dall’operazione Tekno, a Matassa, fino alla vicenda Genovese e all’operazione Beta, ha iniziato a scoperchiare il pentolone della zona grigia cittadina, evidenziando i rapporti tra colletti bianchi e criminalità organizzata da cui sarà difficile riscattarsi senza una presa di coscienza collettiva.
L’ottimo lavoro della Procura di Messina con il Procuratore capo Michele De Lucia e della Dia con Renato Panvino porta dritto ai legami tra aree economiche rilevanti del nostro territorio, come dimostra il coinvolgimento del fondatore della Fire Sergio Bommarito, per il quale era pronto un ordine di arresto, respinto però dal giudice per le indagini preliminari Tiziana Leanza che ha disposto l’obbligo di firma per tre volte la settimana.
In attesa di “giudizio” restano quelle telefonate, quelle interlocuzioni che mostrano con quanta disinvoltura una presidente del consiglio comunale fosse “leale” solo con i “suoi”: commercialisti con la pistola come Marco Ardizzone, faccendieri fidati e candidati come Giuseppe Chiarella, la cui moglie Angela Costa era “in prestito” nella cooperativa della Barrile, imprenditori come Tony Fiorino o speculatori come l’imprenditore edile Vincenzo Pergolizzi, ritenuto vicino alle famiglie mafiose dei Cappello di Catania e dei Foti di Barcellona. Senza dimenticare “l’amicizia” con il direttore dell’Atm Daniele De Almagro e con l’ex presidente Amam Leonardo Termini.
Usare un ruolo pubblico e politico per esercitare pressioni su dirigenti e funzionari amministrativi per favorire gli amici o i familiari, è uno schiaffo ai diritti di tutti. Ma dal malcostume al reato il passo è breve, come mostra la storia giudiziaria di questi ultimi anni che però non è stata discriminante per alcuni consiglieri condannati in Gettonopoli e nuovamente eletti nel neo consiglio comunale.
Ma l’aspetto più dolente ci viene ripensando alle parole usate da Marco Ardizzone, egemone nel rione Gravitelli, verso Emilia Barrile, che tuttavia rappresentava il più importante organo di controllo democratico della città: “ricordati sempre gioia, io mi sono messo a riposo ma non sono in pensione”.
Se come ribadiva Paolo Borsellino,”politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”, ecco bisogna coltivare la lucidità di essere cittadini sempre in disaccordo con la logica della mediocrità e del quieto vivere, non cercando favori ma chiedendo diritti. Non vendendo il voto per promesse che verranno pagate col dolore di chi ogni giorno lascia Messina perchè gli spazi sono occupati dai prepotenti. E sostenendo chi ogni giorno lavora per garantire che i diritti siano per tutti e non per pochi, per dare alla nostra città la dignità che merita.