All’alba di oggi, i Carabinieri del Comando di Provinciale di Messina hanno
eseguito in questa provincia e in vari istituti penitenziari del territorio nazionale, con il
supporto del 12° Nucleo Elicotteri Carabinieri di Catania, un’ordinanza di custodia
cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Messina su richiesta della locale Direzione
Distrettuale Antimafia peloritana, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, a carico
di 8 soggetti (7 dei quali ristretti in carcere e 1 sottoposto agli arresti domiciliari)
ritenuti responsabili – a vario titolo – dei reati di associazione per delinquere di tipo
mafioso, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni e violazioni degli obblighi della
sorveglianza speciale, tutti aggravati dal metodo mafioso.
Sono 8 i provvedimenti cautelari custodiali eseguiti dai Carabinieri del Comando
Provinciale di Messina a carico dei sottonotati indagati:
1. BONASERA Angelo, nato a Messina il 22.11.1965, attualmente detenuto presso
il carcere di Messina Gazzi, per altra causa;
2. CALIO’ Antonio, nato a Messina il 09.09.1983;
3. CAMBRIA Giuseppe, nato a Messina il 23.06.1972;
4. CAMBRIA SCIMONE Antonio, nato a Messina il 15.04.1968;
5. FERRO Tommaso, detto “Masino”, nato a Messina il 27.01.1977;
6. GUARNERA Lorenzo, nato a Messina 20.03.1961, attualmente detenuto presso
il carcere di Caltanissetta per altra causa;
7. MESSINA Raimondo, detto “Saro”, nato a Messina il 25.08.1972, attualmente
detenuto presso il carcere di Milano-Opera, per altra causa;
8. RUSSO Alfio, detto “Massimo”, nato a Messina il 29.11.1970, ivi residente,
destinatario di ordinanza di custodia cautelare di sottoposizione agli arresti
domiciliari.
IL PROVVEDIMENTO RESTRITTIVO
Il provvedimento restrittivo scaturisce da una complessa attività di indagine,
convenzionalmente denominata “POLENA”, avviata nell’ottobre 2014 dal Nucleo
Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Messina, coordinata dai
sostituti Procuratori della Repubblica Liliana Todaro e Maria Pellegrino, che ha
preso le mosse dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Santovito
Daniele, i cui esiti hanno permesso di comprovare l’operatività di una consorteria
mafiosa attiva nella zona sud del capoluogo peloritano e riconducibile al detenuto
Giacomo Spartà (ininterrottamente detenuto dal 25.03.2003), capo dell’omonimo
Clan, egemone nel racket dell’usura e delle estorsioni in danno di commercianti ed
avventori di sale scommesse, i cui proventi concorrevano ad alimentare la “cassa
comune” della consorteria.
LE INDAGINI
Gli esiti dell’attività tecnica unitamente a quella svolta con metodi tradizionali
poste in essere dagli investigatori dell’Arma hanno permesso di comprovare i
rapporti tra MESSINA Raimondo e gli appartenenti alla famiglia SPARTA’. Tant’è
che in una circostanza la moglie del boss, in occasione della cessazione della
semilibertà cui il MESSINA era sottoposto, si è personalmente recata,
accompagnata dai propri figli, a fargli visita presso la sua abitazione. Inoltre il
MESSINA ha manifestato in più occasioni esplicitamente il proprio rispetto verso
Antonio Spartà, fratello del detenuto (sebbene non si siano registrati, nel corso
delle indagini, rapporti telefonici) incontrandosi sovente de visu con lo stesso.
I RAPPORTI CON LA FAMIGLIA SPARTA’
L’esistenza di un gruppo mafioso stanziato nel territorio del popoloso quartiere a Sud
di Messina, denominato Santa Lucia Sopra Contesse, è riconosciuta in diversi
provvedimenti giudiziari, alcuni dei quali divenuti definitivi. Gli elementi di prova
raccolti nell’odierna indagine, hanno in sintesi evidenziato e comprovato la piena
operatività del citato storico sodalizio criminale, ben strutturato e altrettanto ben
radicato nel territorio cittadino e che aveva in programma un numero indeterminato di
reati contro il patrimonio e la persona. Al vertice dello stesso vi è MESSINA
Raimondo, reggente del clan SPARTÀ unitamente a Nostro Gaetano, entrambi in
questo momento già detenuti per altra causa. L’attenzione investigativa si è
inizialmente concentrata sul predetto MESSINA e su LUCÀ Maurizio, entrambi
indicati quali uomini di fiducia di Giacomo Spartà dal collaboratore SANTOVITO
Daniele. Malgrado l’attività investigativa su LUCÀ sia stata interrotta dopo sole due
settimane – poiché lo stesso era stato tratto in arresto dai carabinieri del Nucleo
Investigativo di Messina a seguito delle risultanze dell’indagine, convenzionalmente
denominata “Alexander”, del 9.12.2014 (in quanto ritenuto responsabile di alcuni
episodi estorsivi) nonché indagato nell’operazione denominata “Copil”, del
24.02.2015 (poiché ritenuto responsabile del reato di riduzione in schiavitù di un
bambino romeno), ha consentito di censire i suoi rapporti con CAMBRIA SCIMONE
Antonio e, quindi, quelli di quest’ultimo con lo stesso MESSINA Raimondo.
L’inchiesta svolta nei loro confronti ha permesso di acquisire una notevole mole di
materiale probatorio a carico di tutti gli odierni indagati, consentendo di delineare i
ruolo dei due promotori dell’associazione mafiosa quali terminali degli affari illeciti e
dei conseguenti proventi dell’organizzazione. Infatti dalle progressioni investigative è
emerso in maniera incontrovertibile che lo stesso MESSINA, gestiva la CASSA COMUNE
del gruppo, alla quale attingeva anche per il sostentamento dei detenuti e delle loro
famiglie.
La consorteria mafiosa si è costantemente dimostrata capace di interferire e di
condizionare l’attività di alcuni imprenditori messinesi, non solo imponendo
assunzioni di personale indicato dai sodali, ma anche imponendo loro le scelte
imprenditoriali. In particolare, è stato accertato nel corso dell’inchiesta come, al
fine di eliminare del tutto la concorrenza al bar “il Veliero”, riconducibile a Saro
Messina, un pasticcere sia stato obbligato ad interrompere la vendita di bibite e
caffè all’interno alla propria pasticceria, adiacente al citato bar, poiché, a giudizio
degli odierni indagati, sarebbe stato responsabile di un calo degli introiti. In un
ulteriore episodio, un imprenditore attivo nel settore del commercio all’ingrosso di
prodotti alimentari, è stato costretto con violenza e minaccia ad interrompere le
forniture di carne e lavorati di macelleria ad alcuni ristoranti cittadini per favorire
la nascente attività di macelleria di uno degli indagati.
Altra fonte di intromissione nel normale svolgimento dell’attività imprenditoriale
delle vittime è stata individuata nell’acclarata consuetudine di imporre l’assunzione
presso i loro esercizi commerciali, di parenti e conoscenti degli indagati, oltre che
di impedirne il licenziamento.
L’ASSOCIAZIONE MAFIOSA NELLA ZONA SUD DI MESSINA LE ESTORSIONI AI
DANNI DEGLI IMPRENDITORI
Ulteriore lucroso settore di interesse dell’associazione si è dimostrato essere quello
delle estorsioni in danno dei giocatori, frequentatori di alcune sale gioco cittadine
controllate dalla stessa consorteria. E’ stato documentato, infatti, come in un caso
alcuni degli odierni indagati abbiano costretto il titolare di una sala scommesse a
cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche dallo stesso palesate,
pretendendo anche il pagamento della somma di 5.000 euro, per una serie di
giocate effettuate con denaro “a credito” delle società di scommesse (che lo stesso
aveva effettuato quando era titolare dell’esercizio commerciale). Ma ben più
incisivi sono risultate le modalità con le quali i giocatori sono stati costretti a
pagare i debiti di gioco contratti con i gestori delle sale. In particolare, sono stati
censiti numerosi episodi in cui il debitore dapprima è stato esplicitamente
minacciato di violenza e ritorsioni fisiche (“ti spezzo le gambe”) e
successivamente, allorquando la minaccia si rivelava infruttuosa, i sodali facevano
esplicito riferimento alla propria fama criminale nonché alla loro appartenenza
all’associazione mafiosa. Pertanto, ricorrendo a tali forme di coartazione, gli
odierni indagati riuscivano, con sistematicità, a recuperare tutti gli asseriti crediti
vantati (che variavano tra i 3.000 ed i 10.000 Euro). Al riguardo, appare
significativa la vicenda che ha visto coinvolta una commerciante cittadina,
frequentatrice di una delle sale giochi investigate che, a fronte di un debito
contratto ad un tavolo da poker illegale, pari a circa 6.000 euro, è stata costretta
dapprima a versare 10.000 euro in contanti, poi a consegnare un anello del valore
stimato in 6.000 euro ed infine un orologio di una nota marca svizzera del valore di
mercato pari ad euro 4.000.
Nel corso dell’inchiesta è stata comprovato anche il ricorso all’usura in danno di
una commerciante che versava in evidenti difficoltà economiche. In particolare la
vittima, titolare di una nota gioielleria cittadina, per far fronte a piccoli debiti con i
fornitori per un importo totale di 4.000 euro, ha dovuto consegnare nel breve
volgere di soli sei mesi la somma di 8.500 euro, di cui 4.500 a titolo di interessi.
Non contenti, alcuni degli odierni indagati hanno costretto l’imprenditrice a
consegnare anche alcuni preziosi, per un controvalore commerciale complessivo di
ulteriori 1.000 Euro. La stessa, incoraggiata dall’essere riuscita a far fronte alle
pretese degli usurai, ricorreva agli stessi usurai anche in altre occasioni: in
particolare in una circostanza, a fronte di un prestito iniziale di 2.000 euro, in sei
mesi ha dovuto consegnare 4.500 euro mentre in un’ulteriore episodio ha richiesto
un prestito di 5.500 euro restituendone, entro trenta giorni, 9.000.
L’organizzazione aveva individuato la propria base logistica, luogo sicuro ove
incontrarsi per parlare riservatamente degli affari illeciti, presso il bar “IL
VELIERO”, gestito ed amministrato da MESSINA Raimondo, sebbene formalmente
di proprietà della propria madre. Nel corso delle indagini, infatti, è stato registrato
un mutamento societario totalmente orchestrato da quest’ultimo, unico punto di
riferimento per i professionisti che hanno formalizzato detta operazione, avvenuta
senza che sia mai stato richiesto alcun parere alla madre, socia unica dell’impresa e
amministratore della stessa.
In concomitanza con il mutamento societario, Messina Raimondo si è anche
occupato uti dominus della ristrutturazione del locale, seguendo sempre in prima
persona anche i rapporti con i dipendenti – decidendo licenziamenti ed assunzioni –
nonché con i fornitori, il che consente di ritenere che la titolarità dell’esercizio da
parte della madre, avesse quale unica finalità quella di sottrarre il bar ad eventuali
misure patrimoniali a suo carico.