di Palmira Mancuso – Ci sono voluti anni per non chiamarla semplicemente “Festa della donna”. L’8 marzo è una di quelle ricorrenze che fin dal liceo mi mettevano di cattivo umore. E i miei compagni di classe lo sapevano. O per lo meno, dopo cinque anni nessuno più al Seguenza (dove ero rappresentante d’istituto) si fidava di farmi gli “auguri”, giusto per evitare che iniziassi il predicozzo sulle origini di una festa che invece tra la fine degli anni 80 e i 90 era diventata più commerciale che mai, e che io vedevo come lo sfogatoio di orde di femmine che per una sera avevano “il permesso” di andare da sole per locali, parlando e agendo peggio dei maschi. Insomma tutto tranne che emancipazione. Una giornata che dal ricordo di una strage, si era trasformata nel giorno che molte aspettavano per uscire insieme alle amiche e strapazzare il povero cameriere di turno.
Il mio malumore l’8 marzo toccava vette inimmaginabili, e il mio abbigliamento era un nero assoluto, con un foulard color mimosa. Sentirmi fare gli “auguri” perchè donna mi inorridiva. Fossero maschi o femmine, fossero fiori o inviti in pizzeria.
Con gli anni per fortuna anche il senso di questa data è cambiata, e grazie all’impegno di molte donne è diventato nel corso del tempo un giorno di consapevolezza, di riflessioni condivise, di responsabilità verso un ruolo che non è mai stato marginale nella sfera sociale privata, ma che è ancora lontano dall’ essere riconosciuto pubblicamente. Retaggi culturali che si manifestano soprattutto nella violenza a cui le donne sono ancora troppo esposte.
Ma se associazioni e movimenti, imprenditoria e volontariato si muovono sempre più sulle gambe delle donne, la politica italiana anche in queste ultime elezioni ha perso la sua occasione: le “quote rosa” da sempre avversate da chi pretende una società giusta dove il genere non sia discriminante in alcun senso, non hanno portato un boom di deputate in Parlamento, dove saranno 185 alla Camera e 86 al Senato.
Numeri in linea con la legislatura precedente (addirittura identico quello a Palazzo Madama), con una leggera flessione a Montecitorio, dove nel 2013 le elette furono 198. Il fatto che i dati non siamo ancora definitivi lascia supporre che alla Camera il numero, quando scatteranno i recuperi nei collegi plurinominali, potrà avvicinarsi a quello della XVII legislatura.
Per il momento, il dato più affidabile è quello del Senato dove la presenza di donne si aggira attorno al 27%. Nemmeno una su tre.
La ‘pattuglia” più numerosa è nel M5S con 42 donne sul 112 eletti, poco al di sotto della soglia del 40% prevista dal Rosatellum come percentuale minima da rispettare. Il Centrodestra schiera 30 elette su 137, quindi resta lontano dal 40%, come il Centrosinistra, con 13 donne su 59. Deprimente il magro risultato di Leu, che conta un’unica presenza femminile su quattro eletti (è l’ex-capogruppo di sinistra italiana Loredana De Petris).
Alla Camera la musica non cambia con il 30% circa di donne. Sono sempre i pentastellati ad avvicinarsi di più alla soglia prevista dalla “norma di genere” sulle candidature: 82 donne su 222 eletti sicuri (circa il 37%), mentre il Centrodestra, su 260 seggi totali assegnati finora, presenta 67 donne (circa il 26%). Il Pd, in attesa dei ripescaggi, ha 32 donne su 115 seggi assegnati (circa il 28%). Anche in questo caso, il mesto risultato elettorale penalizza Leu, che conta per il momento 4 donne su 14 seggi assegnati.
Epperò la rappresentanza politica non deve essere una “concessione” per quote, altrimenti sarà la solita ipocrisia contro la quale si rischia di sembrare antifemministe in una retorica in cui persino le Femen con la loro aggressività innaturale e violenta divetano un simbolo.
L’unicità è un valore umano, e come tale non ha genere. Quindi buon otto marzo a tutti. A quelli che con un sorriso ci faranno gli auguri, a quelli che si sentiranno banali, a chi ci starà accanto con il rispetto che meritiamo 365 giorni l’anno, quando ce lo meritiamo.