di Palmira Mancuso – Bisogna essere davvero dei presuntuosi a infarcire di parolacce e luoghi comuni un testo “sacro” come l’Enrico IV di Pirandello. Ci voleva giusto giusto Carlo Cecchi, che però a dispetto della sua aurea di innovatore, è sembrato in preda ad un delirio di onnipotenza. Questo si, forse dentro il personaggio che però è risultato a tratti borioso e persino noioso.
La messa in scena a cui abbiamo assistito (interrotta anche per un flash di troppo arrivato da qualcuno in platea che ha suscitato l’indignazione di tutti) è stata un continuo entrare ed uscire dalla finzione teatrale, ma la sensazione non è stata quella di essere coinvolti nel gioco delle parti, piuttosto di dover subire il personale stravolgimento del testo, sottolineato e spiegato come se il pubblico non fosse nemmeno in grado di capirlo.
Insomma che ci fosse o meno uno spettatore, era solo un optional. E, pur riconoscendo la bravura del cast, con Matilde (Angelica Ippolito) che non è in grado di mascherare i segni del tempo che scorre inesorabile; il dottore (Gigio Morra) che rappresenta quella critica alla psicanalisi, sbugiardata dal tentativo di guarire un paziente sano; Tito (Roberto Trifirò) che prova a imporre la propria verità ma viene ucciso, non abbiamo apprezzato questo volere a tutti i costi superare Pirandello, essere più “pirandelliani” del testo ma banalizzandolo con un linguaggio per nulla poetico che strideva con l’impostazione classica della voce attoriale.
L’intreccio di normalità e pazzia, la perdita d’identità, il rapporto tra realtà e finzione, le maschere che gli altri ci costringono a indossare, il fallimento della scienza, la fuga nella follia consapevole. Questo resta. Ma non avevamo bisogno di sentircelo strombazzare.