Sul palco del Vittorio Emanuele arriva dal 3 al 5 febbraio il “Delirio Bizzarro”di e con Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, scene e costumi Cinzia Muscolino, scenotecnica Pierino Botto, disegno luci Roberto Bonaventura, aiuto regia Veronica Zito, collaborazione artistica Ivana Parisi, Simone Carullo, Giovanna La Maestra e con la collaborazione del Centro Diurno di Salute Mentale “Il Camelot”, del Teatro Vittorio Emanuele e della “Casa del Con” produzione Carullo-Minasi e La Corte Ospitale.
Lo spettacolo è progetto vincitore del “Forever Young 2015/2016”
Un Centro di Salute Mentale e due personaggi: uno, in condizione di “pazzo per attribuzione”, trascorre la propria vita a interrogare le stelle, discorde con il tempo presente; l’altra, donna perfettamente integrata, ossessionata dalla carriera, ma che avverte un’insania incipiente. Né pazzi né sani, Mimmino e Sofia in un dialogo serrato – braccio di ferro tra due esperienze di vita completamente opposte – si scopriranno simili, umani, sorridenti, autoironici, sebbene parti inconsapevoli di un sofisticato meccanismo congegnato per rendere l’uomo prigioniero di sé stesso. Si incontrano in una terra di frontiera, il Centro Diurno di Salute Mentale “il Castello”, in cui il confine tra coloro che stanno dentro e coloro che stanno fuori sfuma in un indistinto resistere tra protocolli da rispettare e vite da normalizzare.
Cattedrale ultima dell’identità alienata e interrotta dell’uomo contemporaneo, il “Castello” rimbomba dei dialoghi di due solitudini, nella logica d’un mondo che continua a categorizzare e che quindi esclude. L’ organizzazione sociale, nella sua invadente assenza, è la protagonista indiscussa dello spettacolo: il rimando alla sua amplificata mancanza è affidato all’elemento (indiziale) della scena (vuota). Non rimangono che le mura d’un “Castello” ideale alla cui forma non corrisponde la sostanza: non uno psichiatra, non un pranzo, non un bagno. Due imponenti pareti sconnesse, un labile confine per raccontare un sistema che legifera l’apertura delle porte dei Manicomi ma che -violento- ancora dimentica, respinge e separa. Una scultura quale metafora della società solo protetta da un pannello come fosse una maschera che non com/prende (mette insieme) le parti che tutte le appartengono.
L’elaborazione drammaturgica del testo è partita da quadri di vita vissuta. L’esperienza della cura del male mentale s’è trasformata in pretesto per raccontare la società e le sue disfunzioni, approdando ad una follia tutta contemporanea, lì dove è folle la struttura non coloro che la abitano. Dietro il semplice obiettivo di condividere esperienze di vita, s’è sviluppata una ricerca assai singolare lì dove la vera sorpresa è stata la difficoltà d’operare nette distinzioni tra il sano e il malato, tra il certificante e il certificato. Nulla accade se non viene registrato, fuori dall’elenco non esiste nulla, non esistono gli operatori, non esiste la cura.
Chissà forse che i malati non esistano. Chissà forse che i malati siamo noi.
L’oggi attende d’essere storicizzato, non resta che essere affetti da un delirio bizzarro che tutti ci coinvolge.