C’era una volta il giornalista e c’era una volta il giornalismo.
C’erano una volta gli operatori dell’informazione cui veniva delegato il compito di raccontare quel che accade tutto intorno, dopo aver attinto alle fonti.
C’era una volta il rispetto per un ruolo che ha anche il dovere di far luce su quanto talvolta si vuole tenere al buio. Ma che succede se non vuoi rotture di scatole tra i piedi, a cui dover dare risposte a domande che non intendi minino l’immagine che ti sei costruito? Semplicemente fai in modo di tenerti lontane queste zecche fastidiose dei cronisti, non sia mai turbino la serenità di una tournèe fatta di slogan e propaganda.
Questo è accaduto oggi a Messina, in occasione della visita del Premier, Matteo Renzi. Il primo atto ha visto l’apertura del sipario sulla scena del Rettorato, dove i giornalisti hanno ricevuto il diktat di seguire in streaming da un’altra sala, diversa da quella in cui era in corso la firma del Patto per lo Sviluppo, l’incontro in corso. Ammessi in Aula Magna solo gli operatori tecnici, fotografi e cameraman, non i cronisti. Ma, occhio, neanche per chi faceva foto e video era possibile gironzolare liberi: tutti relegati ai margini dello stanzone enorme, ovviamente.
“Disposizioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, così ci viene precisato quando ci si dice a chiare lettere che noi lì non potevamo proprio stare.
“Vai in Sala Senato Accademico”, ci si dice con fare perentorio.
Eh no. Sai che c’è? Che se devo guardare uno schermo, me ne torno a casa e seguo da lì. Sì perché, al di là dell’opinione non sempre positiva che certi di noi possono suscitare anche nel lettore medio, la realtà è che quanto proviamo a fare è raccontare quello che uno streaming non dirà mai: gli umori, i volti, i bisbiglii. Tutte cose che o sei presente o non cogli. E il lettore no, non c’è. Ci siamo noi al suo posto e queste sfumature sono la vera e propria notizia, l’essenza stessa del racconto che ci sforziamo di resocontare con serietà e molta, molta attenzione.
Pur consci di attirarci ire e antipatie addosso, non di rado. E dunque noi quell’incontro l’abbiamo disertato, senza troppo dispiacere dell’ufficio stampa dell’Ateneo che, d’altra parte, ha solo eseguito istruzioni calate dall’alto…e che alto. Altissimo!
Massimo rispetto per chi è rimasto a svolgere il proprio dovere -compresa la “nostra” Eleonora Currò che ha seguito dal fondo dell’Aula l’evento, armata di macchina fotografica- e che, andato via il Presidente del consiglio, non ha potuto uscire dalla sala finché non gli è stato consentito. Non sia mai che qualche operatore si facesse venire in mente di rivolgere la parola e quindi qualche domanda all’ospite d’onore.
Arrivati al Palacultura la situazione non è stata poi così diversa: fila, ritiro accrediti e, una volta dentro, prima dell’inizio del comizio, se scatti una foto ti prendi anche la cazziata di qualche responsabile della sicurezza che ti redarguisce: “Non cominciamo eh?”.
No? Non cominciamo? E che ci stiamo a fare qui?
La stampa non sembra per alcuni presenza troppo gradita e se anche esci a fumare una sigaretta e rientri, c’è chi ti chiede di riaccomodarti fuori, rifare la fila e rientrare. Precisiamo: gli ingressi aperti sono due, uno destinato alla sala grande dove avrà luogo il #BastaunSì show, l’altro per accedere alla presentazioni di alcuni libri.
Quindi basta passare dall’altro ingresso, piuttosto che rifare la stessa trafila, no? “No!”. E se le hostess, garbate e gentili, ti fanno passare, sempre la famosa sicurezza ti manda via. “Ma mi hai vista. Ho il tesserino al collo”. E chi se ne frega: esci, ti rimetti in coda e rifai la fila. Te lo dice lui, quello che risponde “Qui comando io!” –testualmente-.
Ok. A questo punto dove ci mettiamo? Qual è lo spazio destinato ai giornalisti? “Sopra!”
Dobbiamo stare lontani che più lontani non si può. E alla fine ci riduciamo ad appollaiarci su dei gradini o seduti a terra in galleria.
Il tutto solo per quel dannato accredito attaccato al collo. Allora, sia nel caso del Rettorato che in quello del Palacultura, viene spontaneo chiedersi se fosse davvero il caso di esserci laddove la nostra presenza non è sembrata affatto gradita.
Nessuno aveva pensato avremmo avuto spazio per interviste o domande a chi rappresenta tutti noi, tutto il Paese, a chi parla di democrazia e libertà come se fossero principi che davvero conosce. Siamo vaccinati e adulti, sappiamo che in certi casi l’unica volontà è quella di schivarci. Ma da qui a quel che è successo oggi il passo è lungo e, francamente, vergognoso. Al limite dell’ostruzionistico.
Ci hanno cucito addosso una bella stellina per ghettizzarci adeguatamente e, da appestati, ci hanno rinchiusi in un angolino, nascosto possibilmente. Ironia della sorte, se nel primo e nel secondo caso fossimo entrati al Rettorato piuttosto che al Palacultura senza identificarci, avremmo verosimilmente preso posto come tutti gli altri presenti senza dover rendere conto a nessuno e senza sentirci dire “togliti da qui e mettiti lì”.
Ora, non chiediamo mica di essere favoriti o avvantaggiati (assodato che siamo nei posti in cui siamo per lavoro e non per piacere) ma neanche essere presi a pesci in faccia come il più sgradito e puzzolente degli ospiti.
Ebbene, quello dell’operatore dell’informazione è un lavoro e come tale meriterebbe un briciolo di rispetto: oggi non è andata così. Quel ticket con la scritta “stampa” (che, di solito è un lasciapassare) voleva essere un modo per bollarci e discriminarci? Sì, così è parso. Noi -tutti noi presenti- il nostro dovere di cronisti lo facciamo ugualmente, con o senza il vostro consenso, con o senza il vostro supporto, con o senza il vostro benestare. La serietà professionale, il rispetto del lettore, del cittadino, di chi ha il diritto di essere informato è la nostra priorità, voi pensatela come volete.
Un ringraziamento però va rivolto ad alcuni giovani dem messinesi che, consapevoli di certo della magra figura che qualcuno stava facendo fare anche loro, hanno cercato di supportarci e darci sostegno come possibile.
“La gente sarà la mia scorta”, sosteneva il Matteone nazionale prima di assurgere a dignità di unto dal Signore -e il signore in questione si chiama Napolitano-, ma da allora qualcosa è cambiato di netto, al punto che tra la L e la A ora ci sta un apostrofo: L’agente è la sua scorta…e non uno, tantissimi. Una scorta contro tutto e tutti, compresa la stampa, rea di riferire fatti, circostanze e contestare le innumerevoli supercazzole cui i nostri politici -lui compreso!- ci hanno abituati, convinti di non avere contraddittorio alcuno.
Libertà, questa sconosciuta: un presidente non legittimato dal voto popolare che parla di democrazia e dimostra, ancora una volta, di non sapere affatto dove questa stia di casa! E questo è il leader a cui vogliamo affidare il futuro della nostra Costituzione? Bah.
Del resto non c’è mica da stupirsi: deve pur esserci una ragione se i dati 2016 pongono l’Italia al 77° posto nella classifica di “Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa”: addirittura dietro Tonga, Burkina Faso e Botswana. Tanto per dire.
Ma suvvia forse stiamo esagerando. Del resto avrebbe potuto andarci peggio. Che so, essere giornalisti in Turchia…
@EleonoraUrzìMondo