Suona un po’ strano, forse, sentir parlare di mafia dopo tutto quello che è successo in questi giorni a Messina. Alla luce degli oltre trenta arresti, tra cui anche alcuni volti piuttosto noti, alla luce del segreto di Pulcinella sul pagamento del pizzo, alla luce della paura, che ancora pervade i messinesi, di denunciare le estorsioni criminali. A volte ci si sente soli contro la mafia e, si sa, la solitudine in questi casi non è una buona cosa. Ci si sente soli come si sentivano soli tutti quei giornalisti, magistrati, giudici, medici che hanno iniziato a combattere la mafia quando ha puntato il dito contro lo Stato, ed è proprio di questo che parla “I mille morti di Palermo”, libro di Antonio Calabrò, scrittore e giornalista del “L’Ora”, negli della guerra di mafia, presentato ieri mattina alla Sala Sinopoli del Teatro Vittorio Emanuele.
Una mafia di cui è necessario parlare, come sostiene lo stesso autore, per essere in grado di riconoscerla, analizzarla e capirla, per poter arrivare alla sua radice e non confonderla. Perché la mafia è individualità, la mafia è in quei soprannomi dati ai criminali che identificano delle caratteristiche, che attribuiscono dei tratti alla persona stessa e che, quindi, la differenziano. E nel libro di Calabrò si racconta anche questo, ponendo l’accento su un aspetto della criminalità organizzata di cui si parla meno: le guerre intestine in cui centinaia di persone si ammazzano in nome di un codice d’onore privo di alcun fondamento morale. «Ho sentito tante volte parlare degli eroi che combattono la mafia – dichiara il Prof. Cotroneo, emerito di Storia della filosofia – ma non conoscevo quest’altra faccia della medaglia. Qui si parla di fratelli che hanno ucciso fratelli, cognati che hanno ucciso cognati, si parla di tradimenti avvenuti all’interno delle stesse famiglie che hanno mietuto centinaia di vittime».
«Gli eroi positivi non bastano più – incalza Mario Bolognari, antropologo e direttore del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina – adesso serve sapere chi abbiamo davanti. Abbiamo bisogno di entrare dentro il male, di capire gli atteggiamenti che adottano i criminali e vedere cosa rende morale, all’occhio della persona comune, il comportamento mafioso». Provocatoria, certo, ma altrettanto veritiera l’affermazione del Prof. Bolognari. Se la mafia esiste ed è così potente è proprio perché c’è ancora chi pensa che possa essere utile, che dia lavoro, raccomandazioni, che renda la vita più semplice.
«Essere siciliani – afferma Calabrò – è difficile. Ma la nostra terra, bisogna ricordarlo, non è solo quella di Totò Riina e Bernardo Provenzano, è anche la terra di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Salvatore Borsellino, Pio La Torre. È quella terra in cui ci sono stati elementi che hanno fatto la differenza, elementi che hanno creato delle distinzioni e che hanno provato a cambiare le cose».
La Sicilia è quel luogo in cui coesistono, in una perenne dicotomia, un’anima positiva e un’anima negativa. «E non dobbiamo dimenticare – conclude l’autore – che in questo momento lo Stato ha vinto la sua battaglia contro la mafia, certo, in futuro è possibile che le cose cambieranno, ma attualmente è questa la chiave fondamentale».
E per quanto il libro sia incentrato su un’altra città e in un altro periodo storico, forse questa stessa nota positiva possiamo ricollocarla anche a Messina, dove lo Stato, proprio in questi giorni, ha vinto una sua piccola, anche se poi non tanto, battaglia contro la mafia.