Giuseppe De Francesco sarebbe ancora in vita se la burocrazia giudiziaria non avesse perso tempo tra i vicoli ciechi di quel farraginoso apparato che , di fatto, è un do ut des.
Il 20enne ucciso con il metodo mafioso da Adelfio Perticari a Camaro doveva essere da tempo ristretto in una REMS, a Naso o a Caltagirone. Ovvero, in una residenza per l’esecuzione della misura della sicurezza sanitaria (l’ex OPG, ndr). Già, perché la Corte d’Appello dei Minori di Messina, presieduta da Maria Pina Lazzara, dovendolo giudicare per una rapina a mano armata e tentato omicidio lo aveva definito affetto da ” disturbo di personalità antisociale con alterazione della dimensione impulsiva -aggressiva in soggetto con ritardo mentale moderato”.
Insomma, la perizia era stata chiara: “incapace di intendere e volere” con presa in consegna con carico globale presso il servizio di psichiatria e tre anni di libertà vigilata.
Sentenza che è diventata esecutiva il 20 marzo e non ancora notificata alle parti. Meglio, non notificata al 9 aprile, giorno della sentenza di morte firmata da Perticari nei confronti del piccolo boss che era il figliastro di Giovanni Tortorella.
Ma a Palazzo Piacentini e in viale Europa la pensano diversamente dall’avvocato Silvestro, difensore di De Francesco.
Il giovane ci ” marciava”. Ci sarebbe una condanna a 5 anni in primo grado ribaltata in appello ma anche una “peritale” datata 2010 che riconosceva il giovane già “mentalmente disturbato”. In più, ci sarebbe stata anche una dipendenza da cocaina.
E spulciando tra le carte del “curriculum giudiziario” di De Francesco saltano fuori tante “manifestazioni” di violenza con armi bianche atte ad offendere e persino un’ipotesi di sfregio permanente. Inoltre, ci sarebbero atti di violenza commessi – e non tutti denunziati- in zone anche centrali della più animata movida messinese.
Annotazione finale. La mamma di De Francesco è stata quantomeno sfortunata nella scelta dei suoi compagni di vita: tre figli con tre uomini diversi, dei quali uno morto ammazzato e l’altro carcerato. Un contesto sociale dove è quasi impossibile uscirne con la schiena dritta. (@Gianfranco Pensavalli)