Esistono due rischi − apparentemente opposti − sempre latenti in ogni rappresentazione – specie in quella drammatica – delle vicende di persone alle quali sono stati attribuiti gli onorifici titoli di “eroe” e “martire”: la raffigurazione agiografica, volta all’entusiastica esaltazione e il larvato revisionismo, spesso gonfio di gratuito scetticismo.
Novantadue, Falcone e Borsellino 20 anni dopo, il dramma scritto da Claudio Fava e diretto da Marcello Cotugno, andato in scena ieri sera al Teatro Vittorio Emanuele, riesce sapientemente a fuggire questi tanto attraenti pericoli narrativi.
Nonostante la triste notorietà degli eventi rappresentati – gli ultimi anni di vita dei giudici Falcone e Borsellino, il maxi processo a Cosa Nostra, le testimonianze dei pentiti di mafia sulla cosiddetta “trattativa” tra il potere mafioso e lo stato italiano, la sorda e colpevole indifferenza di eminenti esponenti delle istituzioni politiche verso le sorti funeste dei due magistrati siciliani − la pièce manifesta un’originalità che si regge su pochi ma ammirevoli elementi drammaturgici: il montaggio delle scene, le quali, innestandosi su una scenografia scarnissima, si alternano e si intersecano in modo analogico con una strabiliante varietà di contenuti, toni e modulazioni emotive grazie alla quale le vicende raffigurate si mostrano nella loro brutale “nudità”; l’eterogeneità ben equilibrata delle sfumature interpretative degli attori ( Filippo Dini, Giovanni Moschella e Pierluigi Corallo i quali, senza soluzione di continuità, passano rapsodicamente da un ruolo all’altro nel tentativo di drammatizzare il fitto intreccio degli episodi che precedettero e seguirono l’assassino di Falcone e Borsellino), che si colorano delle tinte del crudo realismo, del violento patetismo, dell’amara ironia, dell’amore amicale e paterno, dell’impotente sconforto; i numerosi “a parte” degli attori e le continue interruzioni drammatiche con le quali i personaggi si rivolgono direttamente agli spettatori, spesso interrogandoli con disperato intento provocatorio.
Quest’opera, seguendo tecniche e procedure che ricordano quelle del dramma brechtiano, manifesta degli scopi precisi, tanto nobili quanto precari e facilmente passibili di fallimento: la stimolazione e la spietata interrogazione della coscienza critica dei fruitori, la disperata volontà di impedire che esse osservino il dolore e le colpe del passato con placido distacco o, al massimo, con un’inutile e superficiale immedesimazione. (Antonio Fede)