di Antonio Fede – Diciotto anni fa, sulle coste di in un piccolo paese della provincia di Reggio Calabria, Riace, accadde un evento che negli ultimi decenni, in alcuni stati d’Europa – e specialmente nel nostro – si è ripetuto, con poche ma sempre atroci varianti, in modo costante: sbarcò un barcone di profughi.
L’esigua cittadinanza riacese, per nulla intimorita da quell’inaspettato approdo, si preoccupò unicamente di aiutare quei bisognosi, cercando di fornire loro beni di prima necessità e una dimora temporanea.
Un cittadino del piccolo borgo, Domenico Lucano, tecnico di laboratorio di un istituto tecnico, rivolse a se stesso e ai suoi compaesani una strana domanda, che – ho la presunzione di credere – pochissimi, posti di fronte a una situazione simile, hanno mai solo concepito: perché non tentiamo di fare in modo che questa gente rimanga nel nostro territorio, lasciando che essa ci aiuti a ripopolarlo e a farlo rinascere?
A questa domanda, Domenico Lucano e alcuni suoi concittadini, hanno fatto seguire non una, ma innumerevoli risposte, che hanno assunto le più disparate forme. Attraverso un quasi ventennale processo ancora in fieri (che sarebbe davvero arduo ricostruire esaurientemente in poche righe), tanto tortuoso quanto affascinante, Lucano e suoi collaboratori sono riusciti ad approntare un programma di accoglienza degli immigrati che appare quasi portentoso e irreale, se paragonato alle modalità (il sistema dei vari centri di detenzione, identificazione ed espulsione, luoghi nei quali lo stato giuridico d’eccezione diviene la regola) con le quali gli ordinamenti europei – per tacere di quelli del resto del mondo – trattano il fenomeno dei flussi migratori: riqualificazione del vecchio centro storico (molte delle cui case abbandonate sono state ristrutturate e date in concessione ai migranti); creazione di una rete – nella quale calabresi e stranieri trovano collocazione – di botteghe artigianali, piccole aziende agricole, allevamenti di bestiame, associazioni offrenti i più disparati servizi agli immigrati; promozione di un (incredibilmente fiorente) turismo “alternativo”.
Tutto questo stratificato complesso di attività – qui riportato sommariamente – si compie grazie alla serena cooperazione tra gli abitanti del luogo e i moltissimi rifugiati e richiedenti asilo i quali, più che piattamente integrarsi, sembrano “interagire” fattivamente – come dice lo stesso Lucano – con il mondo che li accoglie, consegnandogli la ricchezza del proprio patrimonio culturale ed esperienziale e “accogliendo”, a loro volta, quello dei loro “ospiti”.
Domenico Lucano, divenuto sindaco del comune di Riace nel 2004 e tuttora in carica, per il suo impegno a favore degli immigrati e del suo borgo, è stato inserito dalla rivista americana “Fortune” al 40º posto della sua classifica dei 50 leader più grandi del mondo, figurando, come unico italiano, nello stesso novero di Papa Francesco, Angela Merkel e Aung San Suu Kyi e ponendosi (sono sicuro con una certa riluttanza) all’attuale attenzione dei mass media – decisamente meno a quella della politica, che guarda certamente con un certo imbarazzo a un riconoscimento prestigioso dato a chi ha sempre agìto agli antipodi rispetto ad essa – nazionali.
Al di là del valore simbolico dell’attestazione di stima da parte di un così autorevole osservatore internazionale e delle numerosissime discussioni, circolanti improvvisamente in questi giorni su internet, giornali, trasmissioni televisive e radiofoniche, sulle possibilità concrete di applicare il cosiddetto “modello Riace” (guardato per lo più sì con ammirazione, ma anche con dogmatico pessimismo) al resto d’Italia (o addirittura d’Europa), ciò che voglio porre in risalto della vicenda di quest’uomo coraggioso è la sua semplice, quasi connaturata capacità di elaborare, e faticosamente mettere in pratica, una stravolgente idea di società, dove l’esclusione e la divisione perdono il loro fondamentale compito regolativo.
Non dovremmo forse lasciarci sfuggire l’occasione che la sua esperienza ci porge con mite radicalità, quella di ripensare la radice – non solo etimologica – della parola comunità: il munus latino, il dono che saremmo tenuti sempre a ricambiare a chi ci circonda (specie a chi non possiede i nostri stessi “connotati” politici), l’obbligazione verso gli altri che la loro stessa presenza stabilisce (senza lasciare che mai si dissolva), che dovrebbero tradursi nello sforzo – mai indolore, sempre rischioso – da parte di ogni individuo di esporsi all’altro, modificando irreversibilmente i propri confini identitari e “immunitari”.