di Pietro Saitta – Nel corso di un’intervista pubblicata proprio ieri da questo stesso giornale, il prof. Fontanelli interviene nuovamente sul caso culturale e giudiziario che da alcune settimane attira – quasi più che il simultaneo dibattito su unioni civili omosessuali e stepchild adoption – l’attenzione del pubblico e dei media: l’affaire Tomasello, naturalmente.
Nella suddetta intervista il prof. Fontanelli risponde ad alcuni autori che si sono esercitati sul tema e mi dedica qualche parola, sostenendo che: “E’ risibile, come fa il sociologo Saitta, eludere il problema specifico di questa vera e propria terra dei fuochi della critica letteraria, considerando questo caso come un paradigmatico capitolo di una rinnovata ‘questione meridionale’”.
Vorrei dunque ringraziare il docente per consentirmi di tornare sulla questione e su quel mio articolo così profondamente frainteso e, a suo modo, eluso esso stesso.
Proverò dunque a chiarire in modo più diretto il mio pensiero, prendendo le mosse da una osservazione che ha carattere squisitamente sociologico, ma che risulterà probabilmente condivisibile anche per un letterato (tanto più che da almeno trent’anni sappiamo che scienze sociali e letteratura appartengono al medesimo reame della conoscenza).
L’osservazione di avvio è che quando il bene e il male diventano così nettamente distinguibili come in questa vicenda, qualcosa non funziona. È un assunto valido per la letteratura, così come per le narrazioni mediatiche. Le distinzioni nette di carattere etico – stiano esse nei libri o nei fondi dei quotidiani – servono a semplificare, suscitare stati d’animo, identificazioni e a produrre schieramenti; raramente, però, aiutano a comprendere gli eventi.
Questo significa che, da sociologo, mi sottraggo volentieri al flusso di discorsi atti a produrre da un lato eroi e dall’altro reietti e che preferisco concentrarmi, per così dire, su un “ambiente”. Era infatti esattamente questo ciò a cui alludevo nel mio precedente articolo e che invitavo implicitamente gli altri a fare allorché facevo riferimento alle “relazioni che intercorrono tra gli allievi e il loro maestro”.
Immagino infatti che in questo affaire vi siano molte cose ben più interessanti che il plagio in sé (pur notevole per le sue forme apparenti!). Cose, peraltro, che nessuno si è sognato di chiedere o rilevare. E che pure appaiono sorprendenti per chi, come me e il prof. Fontanelli, fa lo stesso mestiere.
Ambienti, dicevo poco sopra. Non posso dunque che chiedermi come abbia fatto quello “squarcio nel cielo di carta”, a cui lo stesso prof. Fontanelli fa riferimento in una delle prime interviste da egli rilasciate, a realizzarsi improvvisamente, dopo quasi due decenni di consuetudine tra autori e colleghi (il prof. Fontanelli stesso, il prof. Amoroso e il prof. Tomasello).
Immagino gli spazi di un dipartimento, i libri che si succedono a velocità impressionante lasciati in bella mostra sulle scrivanie di stanze condivise, anche soltanto per qualche anno, da colleghi. Immagino le assenze di uno dei colleghi, le mani e gli occhi che si posano sulla sua ultima fatica scientifico-letteraria. Immagino i pettegolezzi – elemento così centrale per la vita dell’accademia – e sorge così il primo dubbio: davvero questo “squarcio” e questa “illuminazione” seguono una abilitazione scientifica (ciò che erroneamente gli altri chiamano concorso)? Davvero i due allievi di un medesimo maestro, per quanto indifferenti l’uno all’altro, potevano ignorare quale fosse la sostanza dei reciproci lavori? O non averne un’idea precisa?
E il maestro? Che ne è di lui? Davvero, per quanto prolifico e forse anche severamente attempato, può non accorgersi che il lavoro del suo allievo – che pure gli capita tra le mani, al punto di recensirne almeno un libro in modo estremamente positivo – non è altro che un infinito plagio del suo medesimo lavoro? Può un autore non riconoscere le proprie parole? E non poche righe, ma pagine e pagine della propria opera, come è accaduto in questo caso?
E che dire del lavoro certosino con cui il prof. Fontanelli, in un tempo tutto sommato esiguo, compara, identifica e ricostruisce i contenuti di un plagio che si ripete uguale a sé stesso all’interno però di uno spazio letterario e critico enorme, composto dalle 16 monografie del prof. Tomasello a cui vanno ad aggiungersi quelle del prof. Amoroso? Non è stupefacente la sagacia con cui il prof. Fontanelli identifica plagi mascherati (consistenti nel porre un “Brancati lì dove v’era un Tecchi”, per dirla con il prof. Amoroso)? Di fuggita, occorre dare atto al professore che si è trattato di un eccezionale lavoro di sminamento, che neanche un autore con la propria stessa opera avrebbe saputo fare in un lasso di tempo così breve.
Resta tuttavia il problema dell’ambiente. Dicevo che possiamo immaginare una stanza, oppure delle stanze attigue; dei colleghi uniti da una relazione e anche libri e pettegolezzi. Ma possiamo immaginare anche il silenzio. Uno strano silenzio, che dura 18 anni: cioè l’arco temporale che separa la pubblicazione del primo libro di Tomasello, uscito nel 1998 (“Il romanziere è panteista”), dallo scandalo odierno.
Ed ecco che l’idea di ambiente si complica e deve necessariamente includere ciò che sta fuori da quella stanza. Il silenzio deve tenere presente per esempio i rapporti “politici” esterni. Per esempio, chi guida l’università (va da sé, è la risposta che anche un bambino darebbe ormai: il padre dello stesso prof. Tomasello! Ma solo a partire dal 2004 e sino al 2013). Tuttavia il prof. Dario Tomasello diventa ricercatore nel 2001, il tempo di pubblicare un ampio numero di articoli su rivista e almeno due libri – finiti anche questi nell’elenco delle opere plagiate.
Alla luce di questi dati, e di queste date, è davvero possibile che nei sette anni durante i quali il prof. Tomasello costruisce la propria carriera all’interno della stanza che fu del suo maestro e che precedono l’ascesa del potentissimo padre, non vi fosse nulla da dire? Come mai almeno una recensione, uscita nel 2006 a firma dal prof. Amoroso, elogia il lavoro di Tomasello?
Alla luce di questi dubbi, che funzione aveva quel silenzio e a cosa lo si è dovuto? È verosimile, almeno nella prospettiva intima che il prof. Fontanelli e io condividiamo di una professione, che essa fosse espressione di una ignoranza delle pratiche? Di una incapacità di distinguere cosa fosse scritto in libri che, per quello che possiamo immaginare, venivano letti o anche solamente scorsi dai diretti interessati (cioè dal plagiato e dal segugio che ne ricostruisce la storia)? Era questo silenzio espressione di un sistema di relazioni e di un preciso rapporto tra persone (anche soltanto un rapporto di soggezione)?
Perché solo dopo quasi vent’anni ci si decide a parlare? E perché si sceglie proprio adesso questa precisa via, quella di uno scandalo, anziché quella di un ricorso amministrativo che avrebbe dato verosimilmente ragione al ricorrente, inducendo alla formazione di un’altra Commissione e evitando una contrapposizione che ha consegnato nuovamente l’Università di Messina alla luce dei riflettori in una stagione così delicata per la vita dell’Università stessa?
Credo che queste siano alcune delle domande dimenticate che rendono impossibile, allo stato attuale, accodarmi a quanti vedano agevolmente eroi. Fuori dai denti, allo stato attuale a me sembra infatti che questa sia esattamente una storia molto letteraria e moderna: di quelle senza eroi, che si consumano per l’appunto nel silenzio, nella convergenza e, nietschianamente, nel risentimento.
Ma veniamo velocemente a media e questione meridionale. La rapida menzione che il prof. Fontanelli fa del mio articolo è tesa infatti a liquidare la mia argomentazione volta a mettere in luce la funzione di questo scandalo nell’economia dei discorsi sull’Università italiana.
Contrariamente al suo avviso, credo invece che la realtà mi abbia dato assolutamente ragione. A pochi giorni dalle mie prime note, l’Università italiana nel suo complesso si è infatti puntualmente ritrovata al centro di una campagna mediatica dedicata alla fuga dei cervelli, al baronato e agli aspetti più oscuri di quella che è la questione universitaria secondo i media.
Avevo perciò visto giusto quando notavo che quello messinese era solo un paragrafo di un sommovimento mediatico in atto, che prende forma nel momento in cui hanno luogo una serie complessa di eventi: in prima battuta, la più grande mobilitazione degli universitari da anni a questa parte contro i tagli agli stipendi, fermi dal 2010, che si sta sostanziando nel sabotaggio del complesso sistema di valutazione approntato dal Ministero dell’Università per giudicare gli atenei e distribuire i fondi.
Per chi ha un minimo di conoscenza dei tempi, della grammatica, delle ritualità e degli intrecci tra media e politica, questo era, nella prospettiva della stampa che conta, il momento giusto per fare qualcosa: ossia il tempo giusto per ritrarre, secondo un copione tradizionale a cui gli italiani sono molto affezionati, l’Università come ricettacolo del malaffare e dell’arroganza dei baroni, le cui pretese economiche appaiono quanto mai inopportune.
E se questo sembra contraddire in parte quanto osservavo, nella misura in cui la portata dell’attacco è di carattere nazionale e non limitata al Meridione, basterà leggere i commenti che lo scandalo ha generato. Basterà cioè pensare alle parole di quanti lamentino la sostanziale inutilità di una laurea acquisita presso l’Università di Messina, dove “si studiano libri errati” e via dicendo con i peana sulla erroneità della scelta di essere rimasti a studiare nell’ateneo peloritano.
Uno scandalo, insomma, che intreccia sapientemente livelli nazionali e locali, che produrrà verosimilmente degli effetti negativi e che rischia di accelerare di molto quella crisi delle iscrizioni che riguarda già le università siciliane e meridionali nel loro complesso e che è essa stesso il frutto di un certo modo di descriverle che tutti sappiamo (come se queste università potessero avere tratti così profondamente diversi da quelle settentrionali, regolate come sono dalle medesime procedure, leggi e logiche. E come se non fossero già andate da tempo incontro a un profondo processo di ristrutturazione neoliberale, incentrato essenzialmente su impatto e diffusione della produzione scientifica individuale e collettiva).
E accanto a ciò, come avevo notato in quel mio precedente intervento, la conseguente molteplicità di lotte in corso tra atenei in risposta al depauperamento di iscritti e risorse; la ristrutturazione del sistema universitario ricercata da precisi settori della società italiana e la conseguente necessità di polarizzare gli atenei secondo criteri geografici che riflettono una precisa visione del Paese e del suo (sotto)sviluppo.
Concludo dunque osservando che no, non credo affatto che la mia visione della questione sia risibile (o tantomeno “complottista”, come altri hanno osservato con estrema ingenuità). Trovo invece che essa sia semplicemente un pelo più attenta e smaliziata di quella prodotta da chi evidentemente non comprende bene le ragioni per cui una storia dalla “notiziabilità” originaria relativamente bassa, che si svolge negli anfratti della nazione e coinvolge personaggi oscuri ai più, diventi invece una delle questioni nazionali del periodo, creando eroi e reietti, lì ove al massimo vi sono solo delle comparse.