di Giuseppe Loteta – Ciccio Frisone, sconvolto, entrò nel salone della Casa dello studente e interruppe con un gesto le prove della recita che doveva costituire uno dei momenti centrali della festa della matricola del 1949. “Il Torino”, disse, “non c’è più. L’aereo con la squadra a bordo si è schiantato contro la basilica di Superga”. Per quel giorno, certo, non si parlò più di teatro. Ma l’indomani ricominciammo. Mancava poco meno di una settimana all’inizio della festa e si doveva far presto. Il copione era solo una pallida traccia scritta da Armando Costa e da Franco Romano, mentre alle scene lavorava Frisone con indiscussa abilità. Armando e Franco erano caricati dal successo riportato l’anno precedente al teatro Peloro da un’altra “pièce” goliardica, “I figli di Troia”, ed erano convinti che sarebbe andata bene anche la seconda volta. Ma, un po’ per pigrizia e un po’ per scelta, si affidavano più all’estro del momento che al testo scritto.
Il “cast” era inevitabilmente improvvisato. La musica era Pasquale Princi con la sua chitarra. E gli attori (si fa per dire) andavano da Eugenio Vitarelli a Orazio Nicosia, Pino De Martino, Nino Bisazza, Puccio Albanese, Enzo La Spada, Tano Malfitano, Nicolò Picciotto e altri. Eccezionalmente erano state incluse anche tre matricole, Nino Bassarelli, Mimmo Ferraro ed io, per i ruoli meno impegnativi.
A me toccava, nella scena dei cow boys, sentirmi apostrofare da un pistolero: “Quanto sei alto, Joe?”. Dovevo rispondere “Uno e settanta, Bill”, sorbirmi un’immaginaria scarica di piombo, ascoltare la sarcastica voce dell’avversario, “Ora sarai lungo uno e settanta”, cadere a terra e restarci per tutta la durata della scena.
Arrivò finalmente il giorno fissato. La festa si era aperta con il proclama del Grifone e con la sfilata dei carri allegorici per il viale San Martino e per via Garibaldi. Poi toccò a noi. Il teatro Savoia era stracolmo. E non soltanto di colleghi con il loro berretto colorato in testa, ma anche di pubblico cittadino, richiamato dai grandi manifesti affissi dappertutto. Per la prima mezz’ora andò bene. Il testo reggeva e noi ci davamo da fare. Forse anche troppo, perché nella scena del West i colpi di pistola a salve si sprecavano, rendendo il tutto poco comprensibile, e in quella africana gli attori erano diventati neri cospargendosi il corpo di un lucido da scarpe che impiegò settimane ad andarsene.
Dopo, però, accadde il finimondo.
Eravamo entrati in scena ammantati in camicioni bianchi, cantando un motivetto in voga tra gli studenti della Fuci (Federazione universitaria cattolici). Il quadro voleva essere una parodia degli usi e dei costumi dei nostri colleghi più bigotti. Ma il copione s’interrompeva lì. A motivo concluso, ci guardammo in faccia. Non sapevamo che cosa fare. Nino Bassarelli propose: “Giochiamo alle belle statuette?”. Poi ognuno si mosse sconsideratamente e disse quello che gli veniva in testa. Inutilmente Armando Costa tentò di riprendere in mano la situazione facendo rientrare in scena Pasquale Princi con la chitarra e declamando non so più che cosa al microfono. Ai primi fischi seguirono le urla e gli inviti perentori di ogni genere. L’intera sala era in piedi. I più accesi si arrampicarono sul palcoscenico e altri ci lanciarono addosso tutto quello che avevano a portata di mano, mentre la polizia irrompeva dagli ingressi di servizio.
Due anni dopo la scena cambia. Siamo al Tomarchio, il ristorante dell’albergo Reale. E’ l’inaugurazione dell’anno accademico 1951/52 e una tavolata riunisce a cena il rettore e i presidi di facoltà con un folto gruppo di goliardi. Nel posto d’onore del lungo tavolo a T siede il rettore, Gaetano Martino, con alla destra il preside della facoltà di giurisprudenza, Salvatore Pugliatti, e alla sinistra il preside della facoltà di matematica, Renato Calapso. La prima parte della serata è dominata dai brindisi in versi, arte in cui Pugliatti è maestro. E tuttavia cerchiamo di batterlo o, almeno, di eguagliarlo. Poi si passa alle botte e risposte, sempre in versi. Uno dei primi bersagli è Nino Minissale, un vecchissimo studente che ha fatto la guerra in Africa, é tra i pochi sopravvissuti di El Alamein e adesso vive la sua seconda giovinezza tra i colleghi che hanno sulle spalle un decennio di meno. Attacca Nino Trifirò: “C’è tra di noi un tale Minissale/ che con Cadorna fece il caporale”. Io concludo: “Ed è il caso di dire ad alta voce/ ch’ei fè il papello a Benedetto Croce”. Interviene, freddo, Martino: “Croce non era laureato”. E Calapso, senza perdere tempo: “Ma iscritto all’Università sì, quindi il papello poteva averlo fatto”.
L’argomento successivo, inevitabilmente, è la sospirata laurea, traguardo per molti di noi parecchio lontano. E’ ancora una volta Trifirò a cominciare: “Ci sono il Tevere, l’Eufrate e il Gange/ ogni goliardo ha una mamma che piange”. Qualcuno dei professori, non ricordo più chi, risponde per le rime. E Trifirò invoca: “Senza rimpianti, senza rimorso/ date la laurea ai fuoricorso”. Ma è di quella sera una memorabile battaglia tra il professore Pugliatti e Nino Le Donne. Tema l’Università di Palermo, dove era in atto una massiccia emigrazione di studenti in giurisprudenza di Messina che non riuscivano a superare gli scogli del diritto privato (Falsea) e del diritto civile (Pugliatti) e andavano a dare queste ultime materie e a laurearsi nel capoluogo siciliano. Il duello si protrae per una decina di minuti. Poi si arriva ai ferri corti. Pugliatti: “Io nei miei principi resto fermo/ caro Le Donne va pure a Palermo”. Nino: “E io le dico con voce da cornacchia/ professore a Palermo c’è la pacchia”. Pugliatti: “Caro Le Donne chi si contenta gode/ ma se ritorni qui le prendi sode”.
L’ultima rima è del preside della facoltà di giurisprudenza. Niente da fare. Non eravamo riusciti a batterlo. Concludono la serata un duetto a pernacchie dei preofessori Pugliatti e Calapso e uno show di Ciccio Cimino, preparato in anticipo. Con stupore, il senato accademico vede venire avanti, presentato come la più brillante matricola dell’anno, un ragazzo che zoppica, muove animalescamente le mani, ha i capelli sulla fronte, strabuzza gli occhi, storce la bocca. E recita, balbettando, una filastrocca senza senso. “Voi non mi conoscete, io son Franco Cimino, dall’aria alquanto fosca, dal viso del cretino…”. Rettore e presidi non possono fare a meno di pensare: “E questo, chi ce l’ha portato all’Università?”.
Ma gli episodi del Savoia e del Reale non furono che due dei tanti di quella lunga e irripetibile stagione universitaria che andò dall’immediato dopoguerra fino ai primi anni Sessanta, che coinvolse numerose generazioni di studenti e che, a Messina come in tutt’Italia, si caratterizzò per l’esplosione del fenomeno goliardico.
Di che cosa si trattava? Di voglia di vivere certo, per chi da ragazzo aveva conosciuto gli orrori della guerra. Di anticonformismo e di sregolatezza, ma anche di spirito laico, di “cultura e intelligenza”, come si legge in una “dichiarazione dei principi della goliardia” del 1946. A Messina fu ricostituita per prima la Corda Fratres, antica associazione universitaria soppressa dal fascismo. Lillo De Domenico ne fu uno dei primi presidenti, seguito da Nino Martino e da altri, mentre nel direttivo figuravano i nomi di Mario Mondio, Ciccio Paolo Fulci, Pippo Cogliandolo, Peppuccio ed Enrico Vinci, Augusto Pagano. Poi fu la volta, nel 1947, dell’Associazione goliardica (As.Go.), fondata da Armando Costa, Lorenzo Fusco, Franco Romano, Gianni Malatino, Bebè Castelli, Leo La Rosa, Gaetano Bellomo. Presidenti, prima Fusco, poi La Rosa, poi Bellomo, poi Aurelio Lemmo, poi Nino Le Donne. E nel direttivo: Andrea Scimone, Silio Pispisa, Nino Trifirò, Vittorio Zirilli, Nino Saitta, Attilio Mazzullo, Ottavio Stracuzzi, Nicola Capria, Ciccio Cimino, Manlio Maiolino, Bastiano Campanella, Franco Saccà, Elio Mazzaglia, Gigi Bitto, io stesso, e, nel volgere degli anni, molti altri.
Nel 1948 sorse il “Senato della Zammara”, con lo scopo di mantenere vivo lo spirito scanzonato e beffardo degli antichi “Clerici vagantes” e di insignire di titoli cavallereschi i goliardi più prestigiosi. I senatori erano guidati dal Grifone (Augusto Pollicina, poi Mimmo Giorgianni, poi Bartolo Saccà, poi Ciccio Faranda, poi Ciccio Cimino), affiancato dal Vicario Generale (indimenticabile il primo, Paolo Chiossone). Simbolo del senato era l’agave, la zammara. E, portata a braccia da due matricole (Mimmo Ferraro ed io) che l’avevano estirpata a Monte Piselli, un’agave enorme fu piantata nel giardino dell’Università ad apertura dell’anno accademico 1948/1949 e visse lì per decenni finché il giardino non fu sconvolto dalle nuove costruzioni.
Il Grifone e i senatori promuovevano le annuali feste della matricola e per l’occasione, avvolti nei mantelli senatoriali blu dai bordi dorati (quello del Grifone era rosso), sfilavano per la città su una carrozza dell’antico Senato messinese, messa a disposizione dei goliardi dal Comune. L’organizzazione delle feste era demandata alle associazioni universitarie. Tra queste, oltre la Corda Fratres e l’As.Go., c’erano l’Apu, guidata da Gigi Autru, e l’Usi, che contava tra i suoi dirigenti Enzo Di Pietro, Giulio Bonardelli, Nino Prestipino ed Enzo Salvà. I calabresi residenti nella Casa dello studente avevano fondato l’associazione “Calabria Avanti”. Gli studenti cattolici erano raggruppati nell’Intesa Universitaria, alla quale aderivano la Fuci, la gioventù di Azione Cattolica e i gruppi giovanili della Democrazia cristiana (Ennio Dalia, Mario Scarcella, Nino Gigante, Pippo D’Angelo, Peppuccio Ardizzone, Pippo Campione). I neofascisti erano organizzati nel Fuan, che in un primo periodo fu guidato dal calabrese Ciccio Franco, futuro leader del “Boia chi molla” e senatore del Msi. Comunisti e socialisti, che stavano nel Cudi, sciolsero nel 1955 la loro organizzazione per aderire all’associazione goliardica (all’Ugi in campo nazionale). Tutte le associazioni si confrontavano nell’Orum (Organismo rappresentativo universitario messinese), che era un po’ il Parlamento locale degli studenti, eletto periodicamente con il sistema proporzionale, e che fu per molti una scuola ineguagliabile di democrazia.
Democrazia universitaria e spirito goliardico camminarono affianco per alcuni decenni. Alla prima si deve la formazione di gran parte della classe politica messinese degli anni a venire (soprattutto nei partiti socialista, democristiano e liberale). Bastano i nomi di Nicola Capria, Ciccio Cimino, Nino Le Donne, Pippo Campione, Nino Gigante, Enzo Di Pietro, Paolo Catanoso, Pippo Cadili, Enzo Palumbo. Mentre altri si sono affermati brillantemente in altri settori della vita pubblica, da Ciccio Paolo Fulci, rappresentante italiano all’Onu, ad Enrico Vinci, segretario generale del Parlamento europeo. Il secondo ha lasciato la sua impronta permanente su chi ne è stato permeato nel periodo universitario. E in qualche caso la fantasia goliardica si è trasformata in fantasia ed impegno letterari, come è accaduto agli scrittori Eugenio Vitarelli e Vanni Ronsisvalle.
Poi, negli anni Sessanta, comincia la decadenza, a Messina e in tutt’Italia. La goliardia si trasforma da fenomeno spontaneo e intelligente in ripetizione forzata di formule spesso prive di contenuti. E la democrazia universitaria non è più una grande scuola politica, ormai vive soltanto di contrasti partitici e correntizi. Fino ad arrivare al 1968, quando la contestazione del nuovo movimento universitario cancella definitivamente le strutture del passato. Ma Messina ha qualcosa da dire fino alla fine. Il secondo presidente dell’Unuri (Unione nazionale rappresentativa universitaria) era stato dal 1951 al 1953 il goliardo messinese Armando Costa, poi avvocato penalista a Roma. E l’ultimo è un altro messinese, il cattolico Nuccio Fava, che negli anni a venire vedremo spesso sugli schermi televisivi.