La XX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo cristiani-ebrei sul tema della decima parola: “Non desidererai…” si è tenuta giovedì 14 gennaio 2016 presso i locali della Biblioteca dei frati minori cappuccini di Messina. L’iniziativa è stata coordinata dal SAE di Messina e dall’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo.
L’incontro si è aperto con l’accoglienza e l’introduzione al tema da parte della responsabile del SAE di Messina, la dott.ssa Daniela Villari. Ricca e approfondita la presentazione della tematica, scaturita dal diverso approccio al testo biblico dei due relatori, il prof. Giovanni Caola, esperto studioso di ebraismo, e padre Alessio Mandanikiota, ieromonaco greco-ortodosso.
La Bibbia (e con essa i Comandamenti o Dieci Parole) è patrimonio comune ad ebrei e cristiani e fondamento del dialogo interreligioso. Ma il loro significato merita di essere liberato da incrostazioni e pregiudizi che allontanano da quello originario e confinano all’osservanza di un ‘fare e non fare’, tipico di un’esperienza di fede dottrinale e “farisaica”. In questa direzione l’intervento del prof. Caola ha avuto inizio con un aneddoto talmudico che mette in evidenza come non basta conoscere bene (attraversare) la Torah e il Talmud, quanto piuttosto lasciarsi attraversare da essi, sino a poter formulare una personale interpretazione.
Questo metodo di comprensione esalta la responsabilità creatrice di ciascun uomo e lo libera dal pericolo dei pensieri prefabbricati. Ciascuno è tenuto a sviluppare e a dar corpo a questa unicità e irripetibilità (M. Buber). Essere quello che si è e non il clone di un altro. La Decima Parola (Comandamento) come è scritta nell’Esodo 20,1-17 inizia con “Non desidererai (lo tah-mod) la casa (bet) del tuo prossimo (re-e-ka)”; poi aggiunge “non desidererai la moglie (eset) del tuo prossimo”; e conclude: né alcunché “di ciò che appartiene al tuo prossimo”. I Talmudisti sostengono che casa in ebraico è bait obet e si scrive esattamente come la seconda lettera dell’alfabeto ebraico (bet). Che è però la prima lettera della Torah. Il Pentateuco, infatti, non inizia con alef, ma con bet (Genesi 1,1: “Bereshit barah Elohim“).
Bereshit, in principio, all’inizio. Per dire che non si accede mai all’alef, ossia all’origine, alla cifra n.1 primordiale. Si è sempre già dentro la cifra n.2, la bet, che scrive esattamente la parola casa. Anche il grafico della bet in ebraico antico somigliava a una casa. Pertanto la Torah inizia con la bet per dire che l’origine di ogni uomo non si conosce mai perché si trova nell’origine dell’origine (alef) che è trascendente, cioè in Dio. Una lettura della decima parola potrebbe essere: non desidererai l’origine del tuo prossimo. Cioè, non credere che l’origine di cui non sai e che ti sfugge, l’alef, la potrai trovare presso il tuo prossimo. O ancora: non desiderare l’esistenza dell’altro perché ugualmente non gioverebbe alla tua. O più semplicemente: non pensare che l’altro ti abbia rubato l’origine, perché questo comporta ansietà, concupiscenza, violazione e manipolazione per interessi di parte, desiderio di prendere la casa del tuo prossimo, la sua dignità e quello che pensi di non avere nella tua. Non hai accesso alla tua origine, non perché qualcun altro te l’abbia rubata, né a quella degli altri, ma perché è data da Dio.
Questa lettura, che non abbandona il testo letterale, ci permette di cogliere il senso della giustizia e dell’amore insito nell’etica dei Comandamenti. Padre Alessio constata che oggi l’amore spesso viene vissuto come possesso, così pure l’esperienza di fede viene fondata ed esplicitata nel possesso: un po’ per ingenuità, un po’ per superbia si crede di arrivare a possedere Dio. Il semplice non desiderare per non avere problemi o il desiderare anche il paradiso, se stanno al di fuori della logica dell’amore e del bene per l’altro, possono risultare fuorvianti e praticare un uso fondamentalista dei testi sacri e delle religioni che su essi si fondano. Tutta l’umanità è desiderosa di salvezza. Si impone dunque all’uomo il passaggio dal desiderare all’amare. L’uomo di fede chiede, anche con insistenza, e si pone in attesa di una risposta divina, che non tarderà ad arrivare.
I Salmi sono una continua richiesta: “Il tuo volto noi cerchiamo” (Sal 27,8). Persino il Padre nostro fa ben sette richieste (cfr. Mt 6,7-13). Maria di Nazareth è colei che non brama alcunché, che non chiede, ma si limita a constatare: “Non hanno vino” (Gv 2,3). E si abbandona fiduciosa al figlio suo e ai servitori: “Fate quanto vi dirà” (Gv 2,5). Il “Non desiderare” è perciò un positivo considerare l’altro non un nemico ma un interlocutore, un compagno di strada, con il quale condividere ricerca e richieste. E’ considerare Dio come soggetto che non tiene per sé, ma elargisce tutto in doni. Non uno da temere, ma da amare (Sant’Antonio abate). Anche la Torah afferma: “Se mi amate osserverete i comandamenti” (cfr. Es 20,6). Il “comando” (patto di alleanza) rivolto ad ogni uomo di buona volontà, sia esso ebreo, cristiano, musulmano buddista, ecc. si realizza nell’osservanza, dunque, dell’unico comandamento, quello dell’amore: per sé, per gli altri, per il creato, per Dio.
In appendice il prof Demetrio Chiatto ha guidato l’ascolto polifonico del Salmo 150 del musicista messinese Saja, organista nel Tempio principale ebraico di Roma. A conclusione dell’incontro suor Tarcisia Carnieletto fmm, direttore dell’Ufficio ecumenico diocesano, ha guidato la recita del Salmo 140 fatta da rappresentanti della chiesa anglicana, luterana e cattolica, e la preghiera comunitaria ebraica di ‘Arvit per l’uscita di Shabbat. (Carmelo Labate, socio SAE)