di Giuseppe Loteta – L’idea nacque nelle stanze seminterrate della Casa dello Studente, che il Rettore Gaetano Martino aveva concesso alle associazioni universitarie. In quei primi anni Cinquanta il fascino dell’Europa era immenso per i giovani che da ragazzi avevano conosciuto gli orrori della guerra che paesi europei avevano mosso a paesi europei. Qualcuno aveva frequentato campi di lavoro estivi in Gran Bretagna.
Altri, raggranellando qualche soldo e viaggiando in terza classe ferroviaria, erano stati a Parigi o addirittura nella lontana Scandinavia. Fu quindi naturale che in una riunione del direttivo della Corda Fratres, la più organizzata e la meno povera delle associazioni universitarie messinesi, si ponesse la domanda: “E se facessimo venire l’Europa qui da noi?”.
Si pensò di creare un villaggio internazionale dello studente. E si cominciò a lavorare per la sua realizzazione.
Dove? Stromboli apparve subito il posto ideale. Non c’è luce sull’isola in quegli anni, nè acqua corrente. Ci sono i lumi a petrolio e i pozzi. Ma ci sono anche tanta pace, un mare incredibile, più stelle e più lucenti che altrove, tramonti indimenticabili sulle spiagge e le scogliere di ponente o più in alto, a mezza costa, dove sorge un piccolo osservatorio della marina militare. E c’è anche un primo, timido approccio con il turismo internazionale, organizzato da elementi locali e invogliato dal film che Rossellini aveva girato nel 1949 sull’isola, avvalendosi della superba interpretazione di Ingrid Bergman, “Stromboli”, appunto. Che cosa poteva esserci di meglio?
Tra i dirigenti della Corda Fratres di quel tempo figuravano i due nipoti del Rettore, Nino Martino e Mario Mondio, Ciccio Paolo Fulci, Pippo Cogliandolo, Peppuccio ed Enrico Vinci, Augusto Pagano. Sono loro, insieme con parecchi altri ragazzi di allora, a dar vita al progetto. L’area del villaggio è localizzata facilmente. Un quartiere di Stromboli, Piscità, è tra i più suggestivi dell’isola e quasi del tutto disabitato.
I suoi abitanti sono emigrati abbandonando ogni cosa. Interi nuclei familiari sono scomparsi. E le loro case, ora vuote e spesso diroccate, biancheggiano silenziose nei giorni di luna piena. Si cercano i proprietari all’estero, si affitta un gruppo di edifici in buono stato che circondano un’ampia terrazza sul mare, si prende contatto con le associazioni studentesche degli altri paesi europei, si affida l’organizzazione logistica a un professore di scuola media che parla un buon francese, Mario Bologna. E si aspetta l’arrivo del primo gruppo.
Da quel lontano 1952, per più di dieci anni, centinaia di giovani provenienti da tutt’Europa vengono ogni estate al villaggio. La durata della permanenza dei gruppi è di una settimana. Arrivano con le vecchie e sbuffanti navi che collegano Napoli con le isole eolie. E, alle prime luci dell’alba, li accolgono sul molo di Fico Grande i ragazzi di Messina che hanno passato l’inverno in attesa di quei giorni.
Sono anche loro ospiti del villaggio o si sono sistemati nelle case disabitate dei paraggi. Augusto Merlino, che è originario di Lipari e conosce già le Eolie, ne acquista addirittura una per pochi soldi.
Nino Le Donne, Ciccio Cimino, Umberto Parito ed io familiarizziamo con altri giovani che vengono da Avellino (Angelo Aufiero, Gennaro Siniscalchi, Nello Tango) e insieme occupiamo un palazzotto semidiroccato. Lo battezziamo “Quisisana” (nella foto a sinistra), come il famoso albergo di Capri. E “Quisisana” è il nome che si può leggere ancora oggi sulla piastrella che sovrasta la porta d’ingresso dell’edificio, comprato e ristrutturato negli anni Settanta.
La nave che viene da Napoli si ferma a un centinaio di metri dalla riva. Non può andare oltre. Sono poi i rolli, le grandi barche dei pescatori di Stromboli, a sbarcare persone e bagagli in una confusione indescrivibile. Il villaggio è pronto per le accoglienze. La terrazza centrale è ricoperta da un tetto di canne. Lì si pranza e si cena.
E il primo giorno, a tavola, dopo avere richiesto silenzio con il tintinnio di un bicchiere discretamente percosso da una posata, Ciccio Paolo Fulci, il futuro rappresentante italiano all’Onu, esordisce con “Ladies and gentlemen” e, in un impeccabile inglese, porge il benvenuto agli ospiti.
A pochi metri dai tavoli del ristorante, all’esterno e all’interno di una stanzetta di pochi metri quadrati, sono esposti in bell’ordine cappelli di paglia e di tela, fazzolettoni colorati, scarpette da mare, zoccoli, confezioni di “Limonina”, il succo di limone che dovrebbe rendere potabile l’acqua dei pozzi, e cianfrusaglie di ogni genere.
E’ Silio Pispisa che ha messo sù la sua “putique”, qualcosa di mezzo tra l’esotica “boutique” e la nostrana “putia”. Medico del villaggio, appena laureato, è Gaetano Bellomo. La sua infermeria è ben fornita e frequenti sono le richieste d’aiuto per le ustioni e i colpi di sole che non possono non tormentare ragazzi e ragazze dalla pelle chiara e dai paesi nebbiosi.
Ma i colpi di sole, questa volta metaforici, imperversano su tutti. Forse si dovrebbe dire colpi di fulmine, ma l’effetto è lo stesso. Favoriti dal magico scenario dell’isola, all’ombra del vulcano, sbocciano gli amori. Durano un giorno, una settimana, una o più stagioni. E a volte tutta la vita. Nino Le Donne sposa la svedese Anna, Gaetano Bellomo la tedesca Dietlinde, l’avellinese Gennaro Siniscalchi, Heidy, anche lei tedesca. E se il rapporto si brucia in una notte, se ne conserverà l’impronta per tutti i decenni a venire.
La settimana di permanenza dei gruppi è lunga come una vita e breve come un istante. Di giorno è il mare, sulla caletta del villaggio, tra gli scogli, o poco più lontano, sulla spiaggia lunga che arriva quasi alla sciara del fuoco. Di sera, tranne quella in cui si sale al vulcano accompagnati dalla guida Salvatore e dal suo cane Max, si balla sulla terrazza. E si canta. “Na voce, na chitarra e ‘o poco ‘e luna” si alterna ad “Aluette” e a “Tipperery”. O si va a Fico Grande e a Scari, i quartieri abitati di Stromboli, fino alla bottega del “gobbo”, dove si può ancora bere la malvasia dell’isola, poi scomparsa. O, ancora, si sale all’osservatorio a godere dello spettacolo bello e terribile delle esplosioni vulcaniche. La sera che precede la partenza il falò sulla spiaggia suggella il commiato, quasi sempre l’addio.
Poi, negli anni Sessanta, il villaggio muore. Non sono cause traumatiche a determinarne la morte. Scompare perché il suo ciclo vitale si era concluso. I tempi stavano cambiando. Pochi anni dopo gli studenti americani avrebbero dichiarato guerra nel Vietnam e in Italia la contestazione sessantottesca avrebbe ucciso le antiche associazioni universitarie.
Ma chi ha vissuto l’esperienza del villaggio di Stromboli sa che su quelle sabbie nere è stata scritta una delle più belle pagine della sua vita. E, ritornando dopo tanti anni sull’isola, non può guardare quella terrazza sul mare, quella spiaggia, quelle case oggi tanto diverse senza un groppo alla gola.