di Saro Visicaro – Le commemorazioni dovrebbero essere occasione di riflessione, di analisi di bilanci. Spesso sono solo occasioni di retorica. Quasi sempre sono il niente. Messina, da centosetteanni ricorda un qualche cosa di impreciso, di oscuro, di gelatinoso. Ricorda la morte. Ricorda male, anzi malissimo, cosa sia avvenuto veramente allora, quali siano stati gli aiuti. Quelli veri. Quelli disinteressati. In quel lontanissimo 1908. Credo che mai sia stato chiesto a Emanuela Guidoboni, la più grande studiosa di storia dei terremoti in Italia, un contributo alla conoscenza. Eppure oggi più di prima sarebbe necessario capire, ritrovare la memoria su questa lunga storia. Su cosa siamo stati, su cosa siamo diventati in questa città di frontiera. Sulla retorica della “unione” con la sponda calabrese oppure sulla sicilitudine o messinesitudine di quest’insieme di storie umane, di strade, di colline, di abitudini, di albe e di tramonti.
Oggi quello che appare chiaro è il caos dell’insieme politico. Un caos ereditato dai partiti ma, sicuramente, anche un caos determinato dal terremoto genetico in ognuno di noi. Messina non è un insieme sociale. Messina è più una somma tra una suburbia borghese e un’altra suburbia che aspira a diventare tale.
Quando la terra e il mare si scatenarono contro, l’Italia era in piena età giolittiana. Il Nord cominciava a decollare industrialmente. L’Ansaldo, la Breda, la Pirelli, la Fiat si preparavano a diventare le roccaforti del lavoro. Nel decennio successivo sempre loro diventarono le fabbriche dell’industria militare. Dopo venne il periodo fascista, la guerra dei tedeschi, degli americani della Russia. A Lipari arrivavano i confinati e i dissidenti al regime. Messina era invece appena uscita dalla ricostruzione e dalla spartizione del suo territorio. Le caste decidevano e lottavano per annettersi urbanisticamente le parti migliori. La Curia, le famiglie massoniche, i proprietari terrieri post terremoto occupavano la città. In Sicilia si occupavano le terre del latifondo. A Portella della Ginestra la mafia dichiarava guerra ai contadini.
Gli anni ’60 furono quelli del boom economico, delle grandi trasformazioni, dell’autunno caldo. In Sicilia finiva il sogno di Enrico Mattei e dell’Italia forte in campo energetico. Spuntò Cefis e la razza padrona. In Sicilia Verzotto e Guarrasi rappresentarono la politica e il mondo di cosa nostra. I Gullotti, i Lima, i Gioia i Ciancimino etc. determinavano i successi elettorali della DC. A Messina cominciavano a sparire le imprese che avevano contribuito alla ricchezza della ricostruzione. I cantieri navali di Rodriquez, le industrie agrumarie e manifatturiere, le imprese vere del settore delle costruzioni, le Ferrovie dello Stato cominciavano lentamente ad affondare. Iniziava l’era di Caronte & Tourist e l’intreccio con la politica degli affari.
Una nuova micidiale scossa tellurica. Della quale tutti fecero e fanno finta di non avvertire. Mentre gli anni ’70 vengono ricordati nel Paese come quelli della strategia della tensione, del rapimento Moro, delle BR, in riva allo Stretto diventavano gli anni della spartizione, dell’annientamento della coesione sociale. Un lungo interminabile terremoto sociale che oggi veicola nel sottosuolo della mediocrità ogni nefandezza. Non un dopoterremoto quindi ma un continuo franare dell’etica, dell’impegno sociale, della speranza nei giovani. Una costante perdita della memoria, funzionale a ripetere gli errori di sempre e a spacciare per novità e cambiamento quanto di più lercio possa esserci. Personaggi che vivono della “politica” per alimentare il possesso, il loro eterno dominio su tutto.
Ma, come ogni cosa, anche questa storia è durata troppo.